Una volta si soleva dire che tre erano i segreti che nessuno poteva scoprire: cosa pensa un Gesuita, quanti soldi hanno i Salesiani e cosa ci sia nella borsa delle donne. Una trilogia a cui bisognerebbe aggiungere una quarta domanda: quanto guadagnano i sindacalisti? In un mio post su Facebook otto anni addietro, facevo riferimento all’espulsione di uno di loro, Fausto Scatola della Cisl, perché questi si era permesso di informarsi sulle retribuzioni di alcuni suoi colleghi. Ebbene, dopo ben sei governi, nessuno ha alzato finora un dito, proferito una sola parola sui giornali anti regime (ossia schierati contro gli avversari politici) oppure organizzato una sola trasmissione televisiva sull’argomento. Per dirla con altre parole, la consorteria dei sindacati, specie quelli pubblici (quasi sempre collusi con il potere politico), va tenuta in debito conto e gode di franchigie nonché di complici silenzi. Ma cosa aveva scoperto, in buona sostanza, il buon Scatola? Semplice: che sono tantissimi i sindacalisti che sommano i propri redditi da lavoro con i cospicui benefit derivanti dal loro ruolo ricoperto, fino a raggiungere, in qualche caso, la bella soglia di circa 300mila euro all’anno di guadagno! Storie di ordinaria furbizia levantina tipica degli italiani, che predicano il sublime e praticano il mediocre, di quelli che quando parlano indicano gli orizzonti di riscatto e di libertà ma che poi rovistano tra i rovi per gratificarsi. Eppure negli articoli 39 e 40 della nostra Costituzione si precisa quali siano i diritti sindacali e quali quelli dei lavoratori né si concedono deroghe speciali in materia di pubblicità dei bilanci. E lo Stato, a fronte dei “comandamenti” della Magna Carta, che fa? Non solo sta a guardare a braccia conserte, ma elargisce finanche ai sindacati cospicue somme accessorie extra a quelle che tali organizzazioni già introitano con le quote di iscrizione! Ma c’è di più: appalta a società collegate (ai sindacati, s’intende) ed ai loro patronati, anche servizi che normalmente sarebbero di competenza di Inps e Inail, per 30 milioni di euro all’anno! Pensate: sono ben 17.000 i sindacalisti che hanno usufruito di benefici sulle rendite integrative derivanti dalla legge 564 del 1996 volgarmente conosciuta come quella delle “pensioni d’oro”. A tutto questo vanno aggiunte le società di intermediazioni, le agenzie di viaggio, le cooperative di servizi ed ecco che il giro diventa ancora più consistente economicamente parlando. Ma di Bilanci? di tasse da versare? Neanche a parlarne! Se credete che sia finita qua vi sbagliate di grosso. Nel calderone spazioso dei beneficiari, infatti, c’è posto anche per i circa dieci milioni di pensionati statali che godono di una pensione retributiva (calcolata sull’ultimo stipendio) e non contributiva (contributi effettivamente versati), per un importo maggiorato del 60% che vale 70 miliardi di euro! Peggio ancora con quel milione di baby pensionati (15 anni e sei mesi di lavoro) che costa all’erario circa 10 miliardi di euro all’anno. Proprio i pensionati costituiscono il nucleo degli iscritti ai sindacati e questo diventa un comune denominatore per tacere di tale annoso scandalo. Una solidarietà che si trasforma in faccia tosta quando gli uni (pensionati) e gli altri ( sindacalisti) gridano allo scandalo delle esigue pensioni minime e perché no, di quell’altra “indecenza” che da anni si vuole spacciare come esemplare, dei vitalizi, ossia delle pensioni di quei mille (!!!) parlamentari che ancora percepiscono quel riconoscimento, con un costo di 40 milioni di mancati risparmi. Nel paese di Pantalone che paga, fanno scandalo i milioni e non i miliardi di euro a seconda dei casi, delle mode e delle convenienze politiche del momento. C’è da chiedersi se nell’ambito delle prospettate riforme il governo Meloni farà finta, come i suoi predecessori, che i soldi incassati dai sindacati e le pensioni d’oro dei sindacalisti siano destinate all’oblio. Come si può pretendere che in una nazione di fascisti plaudenti al regime (fino al 8 settembre del 1943), poi svegliatasi, il giorno dopo, anti-fascista e partigiana, possa valere il senso di coerenza morale e civica inteso come ideale di vita e di governo? O forse non si avvera in questi tempi di democrazia parlamentare quel che Mussolini soleva dire 80 anni fa: “Governare gli Italiani non è impossibile. E’ inutile”? Se il valore etico e civico del popolo dello Stivale non è cambiato, se non nelle apparenze e nel diffuso benessere, ma è rimasto quello praticato in un regime liberticida e nefasto, ci sarà poco da attendere su queste problematiche che riguardano gli interessi particolari ed economici delle élite che gestiscono il potere. Certo “la politica può fare a meno della morale ma non è detto che riesca meglio”, affermava uno come Leo Valiani che i regimi, fascista ed anti fascista, affrontò con eguale coraggio: quello dell’onestà intellettuale e materiale oltre che della denuncia esplicita delle ingiustizie. Un governo può anche evitare questi argomenti per sua convenienza ma non potrà un domani dirsi deluso della furbizia e dell’inciviltà delle genti che pure amministra.
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