Se c’è una parola abusata e male interpretata nel lessico politico questa è “capitalismo”, intesa come disciplina socio-economica posta alla base della libera iniziativa ed al contempo come dottrina dello Stato. Il Belpaese, negli anni del dopoguerra e dei governi centristi guidati da Alcide De Gasperi, ha sperimentato oltre sessant’anni di centrosinistra. E’ accaduto a partire dal 1963 allorquando vide la luce il primo esecutivo capitanato da Aldo Moro con vicepresidente il socialista Pietro Nenni. Si trattò allora di una vera e propria svolta: per la prima volta venivano aperte le porte delle responsabilità di governo ad un partito di sinistra come il Psi. La Dc rimaneva il primo partito italiano ma aveva già archiviata l’esperienza Sturziana del Popolarismo liberale e quella Degasperiana. La stessa cosa era accaduta al partito del “garofano” che aveva mandato in soffitta l’intesa politica unitaria con i compagni del Pci. Nasceva così una compagine governativa che avrebbe progressivamente ridotto ai minimi termini la politica liberale per dare spazio a quella di centrosinistra, con il principio del libero mercato di concorrenza costretto a capitolare innanzi alle nazionalizzazioni ed alla scelta delle partecipazioni statali nelle imprese. Il che significò la regressione del libero esercizio imprenditoriale innanzi alla concorrenza ed alle interferenze “pubbliche” in economia. Insomma: a prevalere fu il criptosocialismo, una teoria che, per quanto mai apertamente dichiarata, faceva prevalere l’idea che lo Stato dovesse detenere le redini delle principali aziende che operavano in settori definiti strategici: era questo il fulcro dell’economia pianificata secondo i dettami del socialismo. In tal modo la pervasività statale nella vita dei cittadini e dell’economia italiana raggiunse il proprio culmine, fino al giungere dei nostri giorni. Ebbene, pur innanzi a questo stato di cose, da decenni è comparso lo spauracchio di un ritorno al fascismo, che ad ogni piè sospinto la sinistra ha evocato allorquando si è ritrovata fuori dal governo della nazione. Uno spettro agitato nel momento in cui gli eredi di via delle Botteghe Oscure non sono più riusciti a mantenere il potere. Bocciati dagli elettori, l’arcipelago della sinistra ha spesso attivato i canali dell’informazione collaterale, spronando gli intellettuali organici a lanciare il grido d’allarme per un ipotetico ritorno al passato. Non solo sulla carta stampata ma anche nei vari talk show televisivi, condotti dai soliti giornalisti di parte, in parte avvalendosi anche del variopinto universo di artisti e registi cinematografici, ovviamente schierati. Di recente il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, rotto il muro del pensiero unico, ha rivelato che i contributi statali al cosiddetto “cinema d’autore” hanno raggiunto la bella cifra di oltre quaranta milioni di euro, per decine di produzioni di cui la metà non ha mai visto nemmeno il battesimo nelle sale di proiezione! Il culmine è stato toccato da un regista d’avanguardia proletaria che, su un contributo di circa cinque milioni destinato alla sua opera, se n’è assegnata quasi la metà per il suo prezioso lavoro! A far da pariglia a questa munifica attività va annoverata anche l’occupazione delle varie reti tv (Rai in primis) e delle principali redazioni giornalistiche del Belpaese, per non parlare dei vari contributi destinati agli editori amici (sottoforma di bonus, rottamazioni, sgravi fiscali e contributivi). Insomma un intero sottobosco statalista che ha oliato a dovere i meccanismi dell’informazione e della cosiddetta “cultura egemone”. Non mancarono neanche gli aiuti elargiti a teatri e compagnie artistiche varie, ed i generosi cachet concessi per le comparsate televisive dei soliti noti: cantanti, comici, fini dicitori, scrittori, intellettuali assortiti. Gente che concorse a creare il cosiddetto mainstream (corrente di pensiero dominante) di dichiarata matrice solidale, popolare ed antifascista. Sono stati per lunghi anni questi gli attori che hanno calcato il teatrino della politica “engagé” della testimonianza politico-culturale del Belpaese, con tanto di corredo di nani e ballerine. Ed è sempre da costroro che partiva la critica al “sistema” capitalistico, insieme con le feroci bacchettate mosse contro il canoni del liberalismo, la competizione, le leggi del libero mercato e le conseguenti riforme concepite in questa ottica liberal liberista. Parliamoci chiaro: senza uno Stato onnipotente ed onnipresente, una burocrazia affetta da iperplasia, compromessa e compiacente, una magistratura politicizzata ed utilizzata come mezzo di lotta e di discredito per gli avversari scomodi, la informazione urlata e scandalistica e strabica, tutto questo maneggio nella greppia statale non sarebbe mai potuto avvenire! Tutti altruisti coi conti in banca e stipendi milionari, evviva lo Stato della perequazione e della inclusione. Assegnare al pubblico le partecipazioni di migliaia di enti ed aziende, la gestione di monopoli in sanità, oltre che dei trasporti, del pubblico impiego e del grande apparato industriale pubblico, fu la condizione preliminare affinché, mutatis mutandis, il potere cambiasse di mani solo figurativamente. La gestione della cosa pubblica a debito crescente, le pastoie burocratiche e le leggi clientelari sperperando i soldi dei contribuenti, restano infatti il dato distintivo dei governi di Pantalone. Ed allora il capitalismo ed i suoi corollari, come la concorrenza, il merito, l’efficienza e la produttività restano un tabù. Meglio parlare di incipiente povertà, di aumento delle disuguaglianze, del mendace ossimoro spacciato sotto l’etichetta di “giustizia sociale” parole vuote ed eufoniche, all’atto pratico, intorno alla tavola ove banchettano i progressisti. Tuttavia è proprio di quel capitalismo che c’è bisogno. Quel capitalismo che deve rinascere e che deve connotare la svolta di Giorgia! Prima che la palude degli interessi e dei compromessi politici la inghiotta.
*già parlamentare
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