CASERTA – Figlio della migliore tradizione giuridica italiana, Giuseppe Garofalo emerge come una figura esemplare: decano dei penalisti campani e unico testimone vivente dell’antica e prestigiosa scuola forense di Santa Maria Capua Vetere. Fondatore della prima Camera Penale d’Italia, un’istituzione che ha rivoluzionato l’organizzazione della professione forense, Garofalo incarna l’essenza dell’avvocato di altri tempi, con il suo stile raffinato e il profondo impegno nella giustizia. Ci accoglie nel suo studio privato, teatro di numerosi incontri tra giuristi, gli scaffali colmi di volumi tematici e le scrivanie ricoperte da manoscritti e documenti antichi, che custodiscono testimonianze preziose di un passato fatto di casi giudiziari epocali. Penalista di fama nazionale, Garofalo ha partecipato a giudizi di straordinaria rilevanza storica e giudiziaria: dal processo alla camorra di Raffaele Cutolo al caso per l’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale da parte della mafia, dove difese con passione la madre della vittima, Francesca Serio. Ha incrociato la strada di colleghi illustri, come Alfredo De Marsico e Giovanni Leone, lasciando un’impronta indelebile nei tribunali italiani. Non solo avvocato, ma anche scrittore e storico di straordinaria finezza, Garofalo ha pubblicato opere memorabili come “La seconda guerra napoletana alla camorra”, “L’empia bilancia” e “Le ragioni del boia”. La sua penna ha saputo raccontare con rigore e sensibilità i drammi e le contraddizioni della giustizia, così come i dilemmi etici che essa pone. Alla vigilia dei 102 anni di età, Giuseppe Garofalo è un uomo che, pur radicato nei valori e negli ideali del passato, ha mantenuto vivo l’interesse per l’evoluzione della società, cogliendone le conquiste e affrontandone le nuove sfide.
Avvocato Garofalo, la sua carriera rappresenta un pezzo di storia della giustizia italiana. Come ha avuto inizio il suo percorso nella professione forense?
Ho scelto di fare l’avvocato per amore della giustizia. Ero uno dei pochi studenti di Casapesenna che si spostava a Napoli per studiare. Rimasi affascinato dagli ambienti giuridici napoletani: le aule, le cause, l’intensità di quell’atmosfera. All’epoca, la Facoltà di Legge era un’istituzione di altissimo livello, con docenti del calibro di Alfredo De Marsico. Fu un periodo che mi formò profondamente e mi spinse a cercare sempre l’eccellenza nella mia carriera. Ricordo le ore trascorse all’università, immerse in testi giuridici e dibattiti accesi con i miei compagni. Era un ambiente che stimolava il pensiero critico e l’amore per la conoscenza. Fu lì che capii che il diritto non è solo un insieme di norme, ma un sistema di valori che richiede dedizione e passione per essere compreso e applicato.
La Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere è stata la prima in Italia, e lei ne è il fondatore, nel 1969. Cosa ricorda di quel periodo?
La fondazione della Camera Penale è stata un passo necessario per dare voce agli avvocati penalisti. A Santa Maria Capua Vetere si concentravano processi di enorme rilevanza, e c’era bisogno di un’istituzione che difendesse i principi della giustizia e garantisse un confronto leale tra accusa e difesa. Ricordo le difficoltà iniziali: raccogliere consensi, superare le diffidenze e definire un manifesto che rappresentasse i valori della nostra professione. Era un periodo di grandi trasformazioni sociali e culturali. La Camera Penale divenne presto un punto di riferimento, non solo per i professionisti locali, ma per tutta la comunità forense. Ancora oggi, ripensando a quel periodo, provo un profondo senso di orgoglio per ciò che siamo riusciti a costruire insieme.
Tra i processi che ha seguito, quale l’ha colpita di più?
Ce ne sono stati molti, ma il processo per l’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale è indimenticabile. Fu un caso di risonanza europea: un giovane sindacalista ucciso dalla mafia per la costituzione del partito socialista in Sicilia. Difendevo la madre della vittima, Francesca Serio, una donna di straordinaria intelligenza e coraggio. In aula era presente anche Carlo Levi, l’autore di “Cristo si è fermato a Eboli”. Levi fece un reportage sul processo e rimase colpito dalla forza e dalla dignità della madre. Ricordo che Pietro Nenni, allora vicepresidente del Consiglio, ogni sabato veniva a Formia e alloggiava in una villa messa a disposizione dal regista Remigio Paone, espresse il desiderio di parlarmi per sapere come stavano le cose riguardo al processo. Con lui erano presenti anche altri dirigenti del partito. E, dopo avermi ascoltato, mi disse semplicemente: “Che la giustizia faccia il suo corso.” Non mosse un dito, com’era giusto che fosse, e tuttavia era capace di piangere quando vedeva la madre della vittima, Salvatore Carnevale. Gli imputati furono condannati in primo grado, ma purtroppo assolti in appello. Fu una lezione amara sulla complessità della giustizia e sulla necessità di combattere con determinazione per i propri ideali.
Lei ha avuto un ruolo cruciale anche nel caso del rapimento di Francesco Coppola, della famiglia di imprenditori di Castelvolturno, nel 1980. Cosa ricorda di quell’episodio?
Fu un caso complesso e delicato. Francesco Coppola, un giovane di 19 anni, era stato rapito, e io fui chiamato come intermediario tra la famiglia e i rapitori. Il gruppo si presentava come “Volpe Rossa”. Fu una vicenda che mi segnò profondamente e che mi fece riflettere sulle difficoltà di bilanciare i principi della giustizia con le esigenze umane e morali. La famiglia aveva trovato un accordo con i rapitori: un riscatto da pagare di tre miliardi e 600 milioni di vecchie lire. Il denaro doveva essere trasportato in una Fiat 600 con una bicicletta fissata sul portabagagli come segnale, mentre i soldi erano da riporre in due valigette sul sedile posteriore. Secondo le indicazioni dei rapitori, l’auto doveva sembrare quella di qualcuno in fase di trasloco. Tuttavia, un giovane magistrato che allora prestava servizio a Santa Maria Capua Vetere fu richiamato a Napoli e decise di bloccare l’auto con i soldi del riscatto nei pressi dell’autostrada a Cassino, sequestrando il denaro. A quel punto, chiesi al magistrato se quel sequestro fosse realmente utile o se, al contrario, fosse dannoso. Il procuratore Roberto Angelone ricevette la mia relazione e fu intervistato da una giornalista sulla vicenda. Mi opposi con forza al sequestro dei soldi, presentando un esposto dettagliato in cui dimostrai che l’azione era stata un abuso e scientificamente errata. Invocai il principio della “legge non scritta”, sostenendo che la famiglia Coppola aveva agito spinta dall’amore per il figlio, un impulso naturale che supera le norme codificate. Nel mio esposto citai una tragedia greca, ricordando che, pur essendo necessario rispettare le leggi scritte, esistono leggi superiori che provengono dalla natura stessa. La famiglia aveva agito in base a queste ultime, mentre il sequestro del denaro, seppur legittimo da un punto di vista formale, non teneva conto del contesto umano. Una giornalista chiese al procuratore, mentre teneva tra le mani il mio esposto (l’avvocato Garofalo ci mostra una foto del procuratore con il documento, ndr), cosa pensasse della vicenda. Il procuratore rispose che, trovandosi nella stessa situazione della famiglia Coppola, anche lui avrebbe scelto di pagare il riscatto.
Oltre che penalista, è anche uno scrittore e storico raffinato. Come si conciliano queste due anime?
La scrittura è sempre stata una passione. Nei miei libri, come L’empia bilancia e La seconda guerra napoletana alla camorra, ho cercato di raccontare la giustizia e la sua evoluzione storica. Capire il passato è fondamentale per interpretare il presente. La mia esperienza in tribunale mi ha offerto uno sguardo unico sulle contraddizioni e sulle trasformazioni della società. Scrivere è un modo per fissare la memoria, per analizzare con calma ciò che in aula si vive con intensità e rapidità. Inoltre, la ricerca storica mi ha permesso di approfondire temi che vanno oltre la cronaca, offrendomi una prospettiva più ampia sul ruolo della giustizia nella società.
Cosa pensa dello stato attuale della giustizia in Italia?
Oggi vedo molta superficialità. Gli avvocati, anni fa, non scioperavano, ma si facevano sentire con atti e documenti che inchiodavano i governanti alle loro responsabilità. La riforma della giustizia è diventata una serie di “rappezzi” su una legislazione che, in origine, aveva una buona ossatura. Anche la formazione dei giovani avvocati lascia a desiderare. Non si studia più la retorica classica, fondamentale per un’arringa efficace. Gli avvocati devono saper scegliere le parole, i verbi, e avere una dizione impeccabile. Inoltre, il sistema giudiziario soffre di lentezza e inefficienza, che minano la fiducia dei cittadini. Serve una riforma profonda, che parta dalla formazione e arrivi fino alla struttura organizzativa.
Prima di salutarci, ci racconta una curiosità su Castel Capuano?
Castel Capuano è un luogo intriso di storia e leggende. Una di queste narra che di notte il castello sia popolato dai fantasmi di coloro che furono giustiziati al suo interno, come gli amanti di Giovanna II e i seguaci di Masaniello. Un avvocato, Orazio Cavatelli, era solito dire che i busti degli antichi giuristi, custoditi nel castello, si animavano di notte per discutere di giustizia. Era un modo affascinante per ricordarci che la giustizia non è solo un insieme di leggi, ma un ideale che vive nel tempo. Passeggiando nei suoi corridoi, non si può non sentire il peso e la grandezza della storia che lo permea.
Qual è il consiglio che si sente di dare ai giovani che vogliono intraprendere la carriera forense?
Studiate le legislazioni antiche per capire come siamo arrivati al presente. Coltivate la retorica e la cultura classica. Leggete i grandi oratori del passato, e imparate da loro l’arte di persuadere. E soprattutto, amate la giustizia. Solo con questa passione potrete dare il meglio in aula e nella vita. La professione forense è una vocazione, non un semplice lavoro. Richiede sacrificio, studio continuo e una profonda dedizione ai valori che essa rappresenta. Oggi, purtroppo, non è così. Ascoltare le arringhe di avvocati come De Marsico, Marciano e Manfredi era un’esperienza unica: il tribunale di Napoli si riempiva, e ognuno di loro portava uno stile personale, una cultura giuridica distinta e un approccio unico all’arte oratoria. Se oggi chiedessimo agli avvocati chi fosse il sofista Gorgia, difficilmente qualcuno saprebbe rispondere. Questo è particolarmente significativo perché parliamo di uno degli esempi più affascinanti dell’uso della retorica operata da Gorgia: il suo Encomio di Elena, in cui rilegge le vicende mitologiche di Elena di Troia. L’ho chiesto anche a mia nipote Paola, e nemmeno lei lo sapeva. Tuttavia, mi ha promesso che lo leggerà (la nipote Paola ha fatto questa promessa, ndr).
Mentre ci congediamo, l’avvocato Giuseppe Garofalo ci saluta e torna a sedersi nella sua poltrona, circondato dai libri e dai documenti che raccontano la sua straordinaria vita professionale e intellettuale. Con la saggezza di chi ha vissuto momenti cruciali della storia giuridica italiana, ci lascia con un ultimo pensiero: “La giustizia non è mai stata una strada semplice da percorrere, ma è un cammino che vale sempre la pena intraprendere, con la consapevolezza che, oltre alle leggi scritte, ci sono valori umani che non possiamo dimenticare”. Un uomo d’altri tempi, ma con uno sguardo sempre rivolto al futuro, Giuseppe Garofalo rappresenta un esempio di dedizione, competenza e passione che continuerà a ispirare generazioni di giuristi e studiosi.
“La Cartabia non basta, così si perde fiducia nella giustizia”
Dalla preparazione “superficiale” della classe forense alle riforme che sono solo “rappezzi” I ricordi e i consigli di Giuseppe Garofalo, unico testimone vivente della scuola sammaritana