CASAL DI PRINCIPE – Un sistema collaudato, replicabile, gestito come una catena di montaggio. È l’immagine che emerge dagli atti dell’inchiesta, condotta dalla Procura di Napoli, che ha portato alla chiusura delle indagini preliminari nei confronti di 84 persone accusate, a vario titolo, di truffa aggravata, accesso abusivo a sistemi informatici e sostituzione d’identità digitale. Una rete che avrebbe operato non solo nelle province della Campania, ma pure in altre regioni d’Italia, sfruttando falle nei sistemi bancari e telefonici — e, soprattutto, la buona fede dei cittadini — per appropriarsi di denaro e dati sensibili. Il meccanismo – ricostruito dagli investigatori – partiva sempre allo stesso modo: una prima fase dedicata alla raccolta delle informazioni. Password, codici, profili e documenti venivano ottenuti con e-mail ingannevoli, finte comunicazioni bancarie o veri e propri acquisti di pacchetti di dati sul web. Bastava un clic distratto o un messaggio di phishing per aprire la porta ai truffatori.
Una volta ottenute le credenziali, scattava la seconda fase, quella del controllo delle utenze telefoniche. Attraverso la clonazione o la sostituzione di schede Sim, i malviventi si impossessavano dei numeri asso ciati ai conti online delle vittime, intercettando così i codici di sicurezza inviati via Sms. In questo modo potevano accedere liberamente ai servizi di home banking o alle piattaforme di pagamento di
gitale. C’era poi chi si occupava di creare o utilizzare identità fittizie. Con documenti falsi o visure aziendali alterate, venivano attivate linee telefoniche, carte prepagate o conti correnti, spesso attraverso punti vendita compiacenti. Queste utenze diventavano la base logistica per successive operazioni di frode o riciclaggio.
Quando tutto era pronto, entravano in azione i ‘tecnici’: con i dati e i dispositivi sotto controllo, tentavano bonifici o prelievi verso conti di appoggio, talvolta all’estero. L’organizzazione era attenta a non lasciare tracce: Vpnconnessioni protette e prestanome servivano a rendere difficile risalire ai reali beneficiari. In alcuni casi, gli istituti bancari sono riusciti a bloccare le transazioni prima del trasferimento del denaro, ma in molti altri i fondi sarebbero stati dispersi in una fitta rete di microversamenti. Gli inquirenti parlano di un sistema distribuito, composto da figure diverse ma interdipendenti: chi recuperava i dati, chi apriva conti, chi li svuotava e chi reinvestiva. Una filiera che, nel tempo, avrebbe affinato le proprie tecniche, imparando a sfruttare in modo combinato strumenti informatici e canali tradizionali.
Le vittime – privati, professionisti, piccole imprese – spesso non si accorgevano subito del furto: a far scattare l’allarme erano movimenti sospetti o blocchi di sicurezza attivati dai sistemi bancari. Ma in molti casi, quando le operazioni venivano scoperte, i conti erano già stati prosciugati o le identità digitali compromesse. Le indagini preliminari, ora concluse, tracciano quindi il perimetro di un fenomeno che va oltre la singola frode. Non un gruppo isolato di hacker, ma una rete economica del crimine digitale, capace di muoversi tra realtà e virtuale con ruoli precisi e una struttura operativa stabile. Un sistema che, secondo gli inquirenti, ha saputo trasformare le vulnerabilità della vita online in un vero e proprio modello di profitto illecito. Gli indagati sono da considerare tutti innocenti fino a un’eventuale sentenza di condanna irrevocabile.
