NAPOLI – Camminano in punta di piedi dentro le loro stesse case, modulano il respiro per non disturbare, per non innescare la furia. Sono le donne intrappolate in un incubo domestico, un inferno quotidiano che, troppo spesso, ha il volto della persona che un tempo diceva di amarle. Ma oggi, alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una nuova e cruda analisi del Comando Provinciale dei Carabinieri di Napoli non solo squarcia il velo su questa realtà, ma offre anche un barlume di speranza: le voci delle vittime stanno tornando a farsi sentire.
Il report, frutto di un meticoloso lavoro di raccolta e analisi dati, dipinge un quadro allarmante e complesso della violenza di genere sul territorio partenopeo. Un fenomeno che, come un cancro, non conosce confini sociali, economici o culturali. È questo il primo, drammatico dato che emerge: la violenza è trasversale. Attraversa i quartieri benestanti come le periferie più disagiate, confermando che non si tratta di un problema di degrado, ma di un modello culturale e relazionale disfunzionale profondamente radicato. Gli autori, infatti, presentano tratti ricorrenti: controllo ossessivo, gelosia patologica e una totale incapacità di gestire la fine di una relazione, vissuta come un affronto intollerabile.
Il dato più sconvolgente riguarda proprio l’identità dell’aggressore. Nel 90% dei casi, la violenza esplode per mano di un ex partner. Il momento della separazione si conferma come la fase di massimo rischio, un crinale pericolosissimo dove la rabbia per l’abbandono si trasforma in persecuzione e violenza. La fine di un amore diventa, nella mente dell’aggressore, una ferita narcisistica da sanare con il controllo e la sopraffazione. Solo in un caso su dieci l’autore è uno sconosciuto o un conoscente occasionale.
L’analisi dei Carabinieri evidenzia anche una distribuzione geografica capillare del fenomeno: il 50% degli episodi si concentra nel capoluogo, mentre il restante 50% si distribuisce uniformemente nei comuni della provincia. Un’indicazione chiara del carattere sistemico del problema, che non lascia zone franche.
Un altro aspetto cruciale è l’impatto devastante sui nuclei familiari. In 8 casi su 10 le vittime hanno figli, spesso minorenni, costretti ad assistere a scene di violenza inaudita. Questi bambini sono vittime a loro volta, testimoni silenziosi di un trauma che segnerà la loro crescita. La loro presenza, inoltre, complica tragicamente la decisione della madre di allontanarsi, diventando in molti casi uno strumento di ricatto e minaccia nelle mani del maltrattante.
Eppure, qualcosa si muove. Molte donne trovano il coraggio di denunciare. La maggior parte lo fa subito dopo il primo, grave episodio, spinta dalla paura per sé e per i propri figli o sostenuta dalla rete familiare. Un’altra fetta significativa, però, attende dai 3 ai 6 mesi. Un tempo sospeso, fatto di paura, dipendenza economica, sensi di colpa e della vana speranza che le cose possano cambiare.
Per rispondere a questa emergenza, l’Arma dei Carabinieri, che non dimentica i nomi di Martina, Olena, Daniela e Marta, simboli di una violenza cieca, ha potenziato la sua rete di protezione. In molte caserme del territorio sono state allestite le “stanze tutte per sé”, spazi protetti e accoglienti realizzati in collaborazione con Soroptimist International, dove le donne possono raccontare il loro calvario a personale specializzato, lontano da sguardi indiscreti. Quattro sono già operative a Capodimonte, Caivano, Ercolano e presso la Caserma Podgora. E proprio domani, 25 novembre, ne verrà inaugurata una quinta nella Caserma “Cesare Battisti” di Bagnoli. Un gesto concreto, un luogo sicuro da cui ripartire. Perché, come sottolineano i Carabinieri, spesso basta una telefonata, una confidenza, per aprire uno spiraglio dopo anni di silenzio e iniziare un percorso per uscire dalla violenza. Un percorso possibile, se intrapreso con il sostegno giusto, nel momento giusto.


















