Se vince il familismo amorale

Vincenzo D'Anna
Negli anni ’50 del secolo scorso, il sociologo e politologo americano Edward C. Banfield, si introdusse, sotto mentite spoglie, all’interno di una comunità della Basilicata, per studiare il comportamento sociale degli individui e per dare una spiegazione alla diffusa mancanza dell’etica pubblica e del bene comune che aveva rilevato tra i cittadini del Meridione d’Italia. Al termine dello studio, aiutato dalla moglie, l’italo americana Laura Fasano, lo studioso pubblicò una ricerca dalla quale emergeva incontestabilmente che in quel paesino chiunque detenesse un potere lo esercitava per favorire o per chiedere  favori ad altri al fine di realizzare vantaggi per se stesso, per la propria famiglia oppure per il ceto sociale a cui apparteneva. Completamente assenti, anzi biasimati, i comportamenti che portavano a realizzare gli interessi diffusi ed il bene della collettività.
I coniugi Banfield denominarono tale atteggiamento “familismo amorale” ovvero l’inclinazione che pervade un’intera comunità ad orientare i propri atteggiamenti esclusivamente verso la realizzazione del proprio tornaconto, indipendentemente dai guasti generali che questo avrebbe poi potuto determinare in futuro. Ebbene, il clamore suscitato in queste ore dalla manovra del Governo, dalla pervicace volontà dei due Dioscuri che sono alla guida dell’esecutivo (Di Maio e Salvini) di mortificare il ministro del Tesoro Giovanni Tria, spazzando via ogni cautela di rispetto del rapporto tra debito e Pil (prodotto interno lordo) fino a determinare l’aumento di tutti gli indici di indebitamento dello Stato, mi ha riportato alla mente proprio l’esperienza vissuta dai due ricercatori americani nel profondo Sud della nostra Penisola.
Giova, in questa stessa sede, sottolineare come l’esecrazione e lo sconcerto verso l’atteggiamento del Governo che riprende l’atavica abitudine della Prima Repubblica di distribuire denaro che non c’è, ovvero utilizzando la leva della spesa e del debito pubblico crescente, venga per lo più da ambienti qualificati del mondo della finanza, della stampa e ovviamente dai partiti di opposizione.  All’opposto, ritengo, invece, che la maggior parte degli elettori del M5S e della Lega sia non solo d’accordo, ma addirittura entusiasta delle misure varate dall’esecutivo. Misure che, come enfaticamente ha affermato Di Maio (rispolverando discorsi dal balcone di mussoliniana memoria), “devono spezzare le reni alla povertà”.
In sintesi, l’esecutivo giallo-verde altro non sta facendo che quello che aveva promesso di fare ai propri elettori, indipendentemente dai guasti e dalle conseguenze sul piano economico e finanziario che deriveranno dalla ripresa del sistema assistenziale e clientelare riproposto su vasta scala nel Ventunesimo secolo. Insomma, il cosiddetto popolo sovrano ha votato per se stesso. Ha concesso le proprie preferenze perché l’Italia fosse governata da coloro che, pur annunciando una rivoluzione contro il potere ed il sistema politico parlamentare, alla fine della fiera hanno determinato una vera e propria restaurazione del vecchio sistema imperniato sul “familismo amorale”.
Nessuno si era mai illuso che in Italia il governo potesse ispirare la propria azione al Rinascimento Mediceo e che la società italiana potesse essere rappresentata dalla raffigurazione che Raffaello Sanzio fa nella famosa tela della scuola di Atene. Che, insomma, si sarebbe potuto cancellare, d’un colpo solo, l’egoismo levantino degli italiani che, da sempre, hanno scolpito, a mo’ di epigramma, la loro frase preferita: “predicare nel sublime e praticare nel mediocre”. Nessuno, però, si sarebbe mai aspettato che in nome di una rivoluzione epocale che avrebbe dovuto far  giustizia delle clientele, dello sperpero del pubblico denaro e del contenimento della spesa pubblica, si potesse passare addirittura alla restaurazione dei metodi di gestione tipici del pentapartito della Prima Repubblica!!
Diciamocela tutta: Luigi Di Maio, che per molti anni ha recitato la parte di un improvvisato Robespierre accompagnato dai vari Fico, Di Battista e Toninelli nei panni di improvvisati sanculotti, con la Lezzi e la Taverna a sbraitare nelle vesti di madame De Condorcet, avrebbe indossato molto meglio i flemmatici abiti di un Arnaldo Forlani, di un Franco Nicolazzi o di un Giacomo Mancini. Lo stesso dicasi per il leghista Salvini, a capo di un partito che è debitore verso lo Stato di 49 milioni di euro che dovrà restituire in ottant’anni di comode rate. Privilegio, quest’ultimo, inimmaginabile per un comune cittadino che ha debiti verso Equitalia.
Polemiche a parte Lorsignori ripropongono la vecchia furbizia  di gratificare i contemporanei, con soldi presi a debito, addossandone  il costo  ai posteri. Posteri che  essendo ancora di là da venire, non votano e non protestano.
Se questo espediente di Governo e la lezione di una crisi che non passa, a causa dell’enorme mole del debito pubblico italiano, non è stato  ancor ben compreso dal popolo cosiddetto sovrano, saremo destinati, in futuro, a rivivere le emergenze di oggi.  Condannare altre  generazioni  di giovani alla disoccupazione oppure a vivere nella speranza di un’elemosina statale denominata reddito di cittadinanza.
* presidente Ordine Nazionale dei Biologi

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