CASERTA – Stasera al Teatro Parravano di Caserta insieme in scena ne “Il Padre”, confronto sul tema della malattia. Con Alessandro Haber e Lucrezia Lante della Rovere. I due si confessano in un’intervista doppia per “Cronache”.
Parla Alessandro Haber
Con 50 anni di carriera alle spalle, ancora oggi va alla ricerca di nuove emozioni come un ragazzino alle prime esperienze professionali. E’ Alessandro Haber, uno dei pilastri portanti del teatro e del cinema. “Solo sul palcoscenico ho davanti a una telecamera sono mi sento vivo e riesco ad essere me stesso – dice a Cronache – nella vita invece mi sento molto più inadeguato. Mi conosco poco come persona ma riesco a riconoscermi solo attraverso i personaggi che faccio”. Ad Haber si accosta spesso il cliché di genio e sregolatezza per la sua capacità camaleontica di calarsi nei personaggi anche un po’ irregolari, non proprio conformi he riesce a interpretarli con maestria e empatia non comuni. Nato a Bologna da madre italiana e padre rumeno, da piccolo si è trasferito a Tel Aviv, dove è rimasto fino ai 9 anni, per poi tornare in Italia, prima a Verona e successivamente a Roma. “Volevo fare l’attore fin da piccolo con una forte esigenza di travestirmi, raccontare favole, intrattenere il pubblico. Mi piaceva giocare con le parole e con i travestimenti. Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, io senza batter ciglio rispondevo: l’attore”.
Come si immedesima nei suoi personaggi sempre un po’ sui generis?
Ci metto molto del mio vissuto delle mie esperienze. Ogni volta che c’è un ruolo da interpretare cerco di mettere insieme il materiale che ho raccolto negli anni come sensazioni, emozioni, accadimenti.
Il tutto grazie e soprattutto alle sua immensa capacità di espressione.
Qualcuno mi ha regalato un certo talento che non si trova né all’accademia né in una scuola di recitazione qualsiasi. Ovvio che il talento va coltivato e la passione e l’amore profondo che ho per quello che faccio sta nel desiderio di mettermi sempre in gioco.
Dunque lei non si sente una persona arrivata?
Neanche per sogno, anzi. Mi sento ancora come chi sta cercando qualcosa. E questa voglia di cercare è quello che mi salva e mi dà una grande energia.
Ha fatto tanta gavetta per poi lavorare con registi di primo piano.
E’ giusto partire da zero. Io rifarei daccapo la sessa cosa. E da ogni regista ho appreso, così come ho dato qualcosa. Alla fine non devo niente a nessuno e quello che ho conquistato lo fatto da solo.
Ci parli brevemente de ‘Il Padre’ che stasera presenta assieme a Lucrezia Lante della Rovere al Teatro Parravano di Caserta.
Forse è tra le cose più belle della mia lunga carriera. Si tratta di un testo magico, meraviglioso. La gente che ha vissuto l’esperienza con l’Alzheimer si congratula con me per aver messo in scena qualcosa di vero, di unico. Lo stesso autore che l’ha scritto, Florian Zeller ne è rimasto entusiasta.
Parla Lucrezia Lante della Rovere
Bella, elegante, dal fascino aristocratico, Lucrezia Lante della Rovere è uno dei volti più conosciuti e amati del cinema e della televisione italiana. Nasce a Roma da una famiglia nobile. Il papà Alessandro discendeva dai duchi Lante della Rovere, la madre, Marina Ripa di Meana è stata una nota stilista e scrittrice italiana. Dall’animo ribelle Lucrezia già da piccola vuole rendersi indipendente e, grazie ad un fisico invidiabile, comincia appena adolescente il suo percorso nel mondo della moda intraprendendo la carriera di modella. “Tutti abbiamo un inizio dopo la scuola e ci si avventura nel mondo del lavoro – dice a Cronache –. Io avevo il fisico che me lo permetteva e quegli anni si viveva un gran fermento nel mondo della moda, soprattutto a Milano. Quindi la mia prima autonomia me la sono conquistata grazie a ciò che la natura mi ha regalato, anche divertendomi molto, girando il mondo. Viaggiavo, mi pagavano e mi divertivo, dunque il modo migliore per andar via di casa. Ma dentro di me sapevo che quello non sarebbe stato il mio lavoro definitivo”.
Ci dica allora, com’è entrata nel mondo del cinema?
Per caso. Sono stata scelta da Mario Monicelli per quel bellissimo film che è ‘Speriamo che sia femmina’, che mi ha dato la grande opportunità di conoscere il cinema dalla porta centrale e assieme a grandi artisti. Così mi sono appassionata e l’idea di diventare brava l’ho presa come una sfida con me stessa.
E poi?
E poi la cosa è andata avanti: entri in quel mondo e cominci a conoscere i primi attori, registi, drammaturghi. Cominci ad annusare ciò che ti piace e dai inizio al tuo percorso professionale.
Cosa l’attraeva di quel mondo?
Il fatto che si raccontassero delle storie, che si raccontasse la vita con le nostre angosce, le nostre paure. Ciò che fa parte della quotidiano, insomma.
Lei proviene da una famiglia nobile, quanto l’ha condizionata questa circostanza?
Molto. Il mondo del cinema e del teatro è politicizzato, con ideologia abbastanza di sinistra, per cui la figlia di un aristocratico non viene vista proprio di buon occhio. Ho dovuto fare uno sforzo per farmi accettare per come sono e non per quello che il mio cognome rappresentava.
Cos’è il teatro per lei?
E’ tutto. E’ dove c’è una partecipazione attiva, dove sei attore e direttore di te stesso. Dove vivi una grande energia e pathos.
Questa sera è in scena a Caserta assieme ad Alessandro Haber ne ‘Il Padre’.
Di Florian Zeller con la regia di Piero Maccarinelli, sì. E’ la storia di un uomo che mostra i primi segni di una malattia come il morbo di Alzheimer. La figlia Anna, preoccupata per il suo benessere e la sua sicurezza, gli propone di stabilirsi nel grande appartamento che condivide con il marito. Ma le cose non vanno del tutto come previsto. Si evidenzia una disconnessione delle scene così come accade nella testa di un paziente affetto da questa malattia. Si rischia di non capire alla stregua di come non si capisce la testa di un malato di Alzheimer.