Assalto alla diligenza

Da almeno mezzo secolo la vita parlamentare e le leggi varate da Camera e Senato si connotano per un comune denominatore: quello della parziale o mancata copertura della spesa prevista per la loro attuazione. Un andazzo iniziato negli anni Settanta del ‘900, allorquando il timone della nazione fu affidato al centrosinistra. Con l’ingresso dei socialisti di Pietro Nenni nel primo esecutivo presieduto dal democristiano Aldo Moro, le politiche di bilancio furono, infatti, abbandonate a se stesse, vanificando il buon governo di Alcide De Gasperi e di quelli che avevano saputo risollevare l’Italia dalle macerie post belliche, riportando la Lira ad essere premiata come la più stabile ed apprezzata moneta del Vecchio Continente. Governatore della Banca d’Italia fu, in quel periodo, l’economista liberale Luigi Einaudi il quale operò in piena sintonia con Palazzo Chigi fino a creare le condizioni del cosiddetto boom economico e l’ingresso del Belpaese nel novero degli Stati industrializzati e prosperi. Con la scomparsa di quei protagonisti, la politica fu condizionata dal sempre più diffuso intervento degli apparati pubblici in economia con l’introduzione dei cosiddetti piani quinquennali di crescita (oltre che delle nazionalizzazioni). Questi ultimi, ispirati ai dettami teorizzati da J.M. Keynes, accollarono allo Stato una serie di responsabilità economiche e finanziarie che trasformarono il Paese in un modello cripto socialista oltre che in un malaccorto imprenditore. Il ministero delle Partecipazioni Statali divenne un enorme carrozzone che scaricava annualmente sul bilancio pubblico un’ingente quantità di debito prodotto dalle aziende statali o partecipate. La demagogia di salvare posti di lavoro, a qualunque costo, in realtà industriali ormai decotte o, peggio ancora, fuori mercato, fu la parola d’ordine per gli esecutivi di quel periodo. Governi i quali affidavano alla gestione centralizzata il compito di ripianare debiti sul fronte della pubblica impresa e al contempo di irrorare l’impresa a gestione privata di agevolazioni, contributi ed ammortizzatori sociali, in modo che quest’ultima privatizzasse gli utili e pubblicizzasse le perdite. Un bailamme ideologico che ancora oggi annaspa e fa leva sul concetto di Stato padre e padrone, come elemento caratterizzante della funzione pubblica, e che registra, a carico dello Stato imprenditore, circa diecimila aziende partecipate. Nel mentre si continua a mantenere i mille vincoli finanziari e le commistioni, con l’ambito dell’impresa privata. Se questo è lo stato dell’arte di un’economia statalizzata e/o monopolizzata, realizzata secondo il canone dell’idolatria dello Stato e della sua presunta superiorità etica dei fini, ovvero laddove non compaia il profitto (volgarmente confuso con i profittatori), il debito pubblico non può che essere quello.(2.750 miliardi di euro! e 150% del PIL annuale). A rendere ancora più tragica la situazione v’è la ormai fisiologica abitudine di coltivare clientele attraverso l’assistenzialismo e l’incremento degli interventi statali. Gli ultimi clamorosi esempi sono quelli del reddito di cittadinanza che ha fatto risorgere elettoralmente il Movimento Cinque Stelle nelle regioni meridionali e il superbonus per l’edilizia, patrocinato dallo stesso M5S, auspice il Governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte. In quest’ultimo caso, stante anche l’ontologica furbizia degli italiani, si sono concesse agevolazioni finanziarie a fondo perduto addirittura superiori all’importo dei lavori da farsi per gli adeguamenti energetici e strutturali delle abitazioni. Bonus che potevano essere comprati dalle banche le quali, lucrando, anticipavano le somme necessarie, portando all’incasso crediti che erano stati acquistati con la garanzia di uno Stato che, tra l’altro, non è neanche in grado di far fronte ai pagamenti! Una penuria di liquidità che traduce buona parte di quel debito in acquisto di certificazioni di titoli e quindi di debito pubblico, per oltre 105 miliardi di euro. Per dirla con altre parole: il vecchio ritornello di aggirare i vincoli di spesa scaricando sul debito pubblico i costi di operazioni mal calcolate e non finanziate precisamente come corollario vincolante della legge. Il Governo Meloni ha provveduto a ridimensionare il fenomeno, che peraltro non è indenne da truffe e imbrogli, limitando le cessioni del credito e il divieto agli Enti Locali di poterlo acquistare. Se l’esecutivo vuol procedere seriamente sul versante del riordino fiscale e nel riportare a più scarse entità il debito dello Stato, non può che fare operazioni di verità come questa. Ovviamente la Meloni deve fare i conti con quanti in Forza Italia, partito di imprenditori spesso famelici, si oppongono a decisioni drastiche nei confronti del provvedimento varato da grillini e Pd. Ancora una volta la mancata definizione di un comune programma e di un idem sentire ideologico crea fibrillazioni. E quindi… l’assalto alla diligenza continua!

*già parlamentare

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