ROMA – I rincari di petrolio, gas, carbone, pesano sui costi delle imprese: “l’incidenza dei costi dell’energia sul totale dei costi di produzione aumenterebbe del 77% per il totale dell’economia italiana, passando dal 4,6% nel periodo pre-pandemico (media 2018-19) all’8,2% nel 2022. In euro, questo impatto si tradurrebbe in una crescita della bolletta energetica italiana di 5,7 miliardi su base mensile, ovvero in un maggior onere di 68 miliardi su base annua”. Il settore maggiormente colpito è di gran lunga la metallurgia, dove “l’incidenza potrebbe sfiorare il 23% alla fine del 2022, seguito dalle produzioni legate ai minerali non metalliferi (prodotti refrattari, cemento, calcestruzzo, gesso, vetro, ceramiche), dove l’incidenza dei costi energetici potrebbe arrivare al 16%, dalle lavorazioni del legno (10%), dalla gomma-plastica (9%) e dalla produzione di carta (8%)”. Sono queste le previsioni del rapporto di primavera presentato dal Centro studi di Confindustria.
L’inasprimento delle tensioni sui mercati di queste commodity è dipeso dal fatto che “Russia, Ucraina e Bielorussia ne sono tra i principali fornitori mondiali, specifica Confindustria, ricordando che ad esempio la Russia nel 2020-21 ha esportato 38 milioni di tonnellate di grano, pari al 14,8% del totale mondiale ed è il 7° produttore al mondo di rame, con una quota pari al 3,8% del totale”. Nel caso del gas, “i mercati prezzano l’incertezza sugli approvvigionamenti in Europa, vista l’elevata dipendenza del continente dall’import russo di questa fonte”.
Per l’Italia, spiega ancora Confindustria, “il gas russo copre il 38% del consumo. A inizio marzo il prezzo del gas è salito a un picco di 227 euro per mwh, rispetto ai 72 alla vigilia del conflitto, ai 20 di gennaio 2021 e ai 9 di febbraio 2020. Quello del petrolio a 133 dollari per barile, da 99 prima del conflitto e 55 a febbraio 2020, e da allora si è avuto un modesto rientro”. Dinamica simile per molte altre commodity: il prezzo del grano è salito di oltre il 34% in due settimane e poi è sceso ma senza tornare al livello pre-guerra, quello del mais del 10%. Anche i metalli, come il rame, l’alluminio, il nickel, hanno subìto un incremento ulteriore a marzo.
Le imprese hanno finora in gran parte “assorbito nei propri margini, fino ad annullarli in alcuni casi, questi aumenti dei costi, invece di scaricarli sulle fasi successive della produzione. I margini erosi spiegano perché l’inflazione core in Italia è bassa, molto più che altrove”. L’unico aspetto positivo è che questo andamento di prezzi e margini ha “salvaguardato la competitività delle imprese italiane rispetto a quelle di altri paesi, ma non è sostenibile. Per questo diverse imprese stanno riducendo o fermando la produzione, o prevedono di farlo nei prossimi mesi”.
(LaPresse)