“Dobbiamo abbracciare il futuro, sapendo che negli anni cambierà per sempre il mondo del lavoro”. Parole del supermanager e inventore sudafricano Elon Musk. L’idea è che il progresso tecnologico possa rappresentare un’opportunità di sviluppo e benessere, piuttosto che una corsa verso la distruzione dell’ambiente e della società. Pare esserne convinto anche Ernesto Paolozzi, studioso di Filosofia ed estetica.
Oggi l’uomo è solo il mezzo, e non il fine, dell’economia. Schiacciato tra il suo ruolo di consumatore e un sistema fatto per concentrare la ricchezza nelle mani di pochi. Le macchine diventano sempre più indipendenti dal suo intervento nei processi produttivi e questo si traduce in perdita di posti di lavoro, impoverimento della popolazione “attiva” e aumento delle tensioni sociali.
A pagarne le spese è l’umanità stessa, intesa come complesso di qualità che caratterizzano l’essere umano. Massimo d’Azeglio diceva che il lavoro nobilita l’uomo ma forse sarebbe più corretto dire che l’uomo è il suo lavoro. Attraverso di esso non si limita a procurarsi le risorse economiche per sopravvivere, ma esprime la propria natura. Soddisfa il suo bisogno innato di modificare e migliorare la realtà che lo circonda.
Non è un caso che gli uomini facciano coincidere la comparsa della loro specie con quella dell’industria litica. E’ l’uomo stesso a ritenere che non potesse essere definito tale quando si limitava a cogliere i frutti dagli alberi. E’ diventato uomo quando ha inventato uno strumento per lavorare le materie prime, cacciare, combattere, coprirsi, mangiare e, millenni dopo, coltivare la terra.
Creatività e società che cambia
Si capisce così perché oggi la crisi del lavoro, tra automazione dei processi produttivi, delocalizzazioni e dinamiche finanziarie, abbia drammatiche conseguenze in ambito sociale e culturale, prima ancora che economico. Le persone perdono i propri diritti e la propria identità. L’uomo rischia di perdere la propria umanità a partire dal suo aspetto più caratteristico: la creatività.
Ed è proprio sulla difesa dell’umanità, dei diritti, della democrazia, della cultura, dell’etica del progresso tecnologico e della politica, che il professor Paolozzi, docente di Storia della Filosofia Contemporanea, incardina la proposta di riforma della società. Per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti, per la redistribuzione della ricchezza e per perseguire il sogno di un lavoro dignitoso e appagante per tutti.
La tecnologia
Il suo libro “Diseguali, il lato oscuro del lavoro” (Guida editori), disponibile in libreria e in Internet, è anche una lucida analisi delle patologie della nostra società. Si parte dalla deriva del concetto di democrazia, trasfigurato in “democraticismo, in iperdemocrazia, in conformismo, in tirannia, potremmo dire, dell’opinione pubblica”. Internet è spesso strumento di manipolazione della realtà, piuttosto che di libertà.
Allo stesso modo la tecnologia, “nata per agevolare la fatica del lavoratore, ne fa oggi il suo schiavo”. I posti di lavoro persi non vengono sostituiti da quelli che il progresso crea, le grandi aziende rimpiazzano i lavoratori rapidamente, così come trasferiscono i centri di produzione da un posto all’altro del mondo con una frequenza e una facilità impressionanti.
La soluzione? Per Paolozzi è passare dalla tragedia della disoccupazione alla “liberazione dal lavoro”. Utilizzare la tecnologia per rifondare la società sul lavoro inteso come attività creativa e in condizioni più dignitose. Lavorare meno ma lavorare tutti. Uno slogan del ’68 che, in un diverso contesto, potrebbe essere ancora più che valido.
La direzione delle battaglie sindacali
Interessante il raffronto tra gli effetti della rivolta generazionale della fine degli anni ’60 e quelli dei più recenti movimenti no global sulla società. I primi “diedero vita a una nuova stagione dei diritti civili e della giustizia sociale”, i secondi sono stati vanificati dalla mancanza di uno sbocco politico e dalla reazione superficiale del mondo politico e intellettuale contemporaneo.
L’autore riflette anche sulla direzione che, in questo contesto, hanno assunto le battaglie sindacali. E sulle presunte “vittorie” che hanno portato a un peggioramento delle condizioni lavorative in Italia per scongiurare la delocalizzazione degli stabilimenti in Paesi, in cui i lavoratori godono di minori garanzie. Tutto sembra orientato verso la trasformazione del lavoro in “fatica”, sacrificio e addirittura punizione.
Non meno mortificante è la condizione di chi viene costretto al lavoro inutile dalla rigidità del sistema normativo e burocratico. L’individuo si ritrova senza punti di riferimento anche nello svolgimento della sua vita sociale. Insieme al lavoro perde la politica, con i suoi ideali e i suoi valori. Scambia la democrazia rappresentativa con l’illusione di quella diretta. Il confronto e il dialogo con le statistiche e i sondaggi.
Direzione opposta
Persino i meccanismi di istruzione, di formazione, di selezione sembrano studiati apposta per sopprimere la curiosità, la creatività, la fantasia e pure il senso di responsabilità. Per isolarci e far appassire l’impulso a migliorare noi stessi e la nostra società. Chiusi in un miope iperspecialismo, non riusciamo più a capire cosa succede intorno a noi.
La soluzione? Andare esattamente nella direzione opposta. Investire in istruzione e cultura, settori oggi spesso trascurati. Senza cultura, la democrazia è una illusione. Promuovere la politica e il miglioramento dei meccanismi della democrazia rappresentativa. Fare in modo che essi siano il mezzo per la realizzazione dell’etica. “La moralità senza politica è moralismo, la politica senza moralità è immorale”.
Abbiamo bisogno di credere. Di utopie in senso etimologico. Di inseguire, cioè, cose che non esistono ancora ma non per questo non possono essere realizzate. Serve ottimismo, coraggio, consapevolezza del fatto che abbiamo i mezzi tecnologici per lavorare meno e costruire una società più giusta, efficiente, libera, sana, ricca e progredita. Siamo uomini. Dobbiamo solo ricordarcene.