Succede che, a Roma, esploda un caso che potrebbe essere derubricato d’interesse rionale, anche se tutti quelli che fanno informazione ormai dovrebbero sapere (e sanno) che il mondo digitale interconnesso può rendere nazionale (e internazionale) anche la più locale delle beghe di condominio, soprattutto se raccontata con una morbosità tale da far rimpiangere il tempo in cui tale meticolosità si applicava a inchieste di malaffare. Il caso è tragicamente esploso negli stessi momenti in cui qualche “distratto” titolista parlava di “giallo hard” risolto partendo dal “gioco erotico” finito male: parliamo del massacro di una giovane che di hard aveva solo la professione di lei, da Onlyfans al porno professionale. Ma nulla c’era di hard, ma proprio nulla, nel folle omicidio con tanto di confessione e descrizione della schifosa violenza con cui quella donna, al pari della merce che qualcuno pare voglia attribuirle (comici che dovevano andare a Zelig inclusi); Carol è stata trattata come una bambola da strangolare, mutilare, straziare, congelare e abbandonare. Non vi è gioco erotico, né giallo hard (soprattutto a giallo bello che risolto) in una storia che ha scritto un’altra pessima pagina di un giornalismo che – e qui vi racconto – tecnicamente dovrebbe formarsi per 20 crediti l’anno e tra gli argomenti di maggior interesse c’è proprio quello della narrazione dell’universo femminile e del rispetto di genere – di ogni genere. Ma torniamo al caso di Roma. Nella Capitale una preside è finita nell’occhio del ciclone perché avrebbe intrattenuto una relazione di natura sessuale con un allievo del liceo da lei guidato. Avrebbe, perché in Italia vige ancora una certa presunzione d’innocenza, almeno fino al terzo grado di giudizio. Il problema è che la questione probabilmente in giudizio non ci finirà nemmeno perché, udite udite, il protagonista maschile della storia è un uomo. Si, ok, per le mamme siamo bambini anche fino a 40 anni e pure per una certa società che vuole gli uomini ormai eterni ragazzini. Ma da un punto di vista squisitamente legale, il maggiorenne è capace assolutamente di intendere e di volere, ivi incluso decidere della sua vita sessuale e di con chi aggrada intrattenere rapporti sessuali. La questione è di competenza dell’Ufficio scolastico regionale al momento in cui vi scriviamo, e si può assolutamente discutere sulla liceità della condotta della donna in una posizione che forse avrebbe suggerito ben altre condotte. Ma qui non parliamo, ed è utile sottolinearlo, di un racconto stringato che ha trovato la sua colonnina sull’edizione locale di uno dei più importanti quotidiani nazionali, ma parliamo di una vera e propria inchiesta a scapito della preside del liceo in questione. Donna di cui, a differenza del suo partner maggiorenne, e quindi fuori dalle tutele giornalistiche previste (quando conviene, evidentemente) dalla Carta di Treviso, al lettore è stato dato in pasto tutto. Il suo primo piano, sorridente, quando quel sorriso ancora non era di pubblico dominio e poteva essere evidentemente dispensato con leggerezza. I suoi dati anagrafici: nome, cognome, età che già di per sé a una donna un gentiluomo manco dovrebbe chiederla. Ma non è bastato. In un clima che ricorda la caccia alle streghe di Tangentopoli, ma senza lo stesso interesse pubblico, della donna sono trapelati – chissà da dove – finanche gli audio – registrati dal suo giovane amante? – con morbosi, inutili e stupidi dettagli che vanno a confermare la relazione, durata circa un mese e in cui non sembra esserci alcuna costrizione. Che dovizia, che voglia di andare a fondo. Quanti approfondimenti, quante vox populi tra i ragazzi della scuola che lamentavano già altro. Salvo santificare l’implume maggiorenne, descritto dai colleghi giornalisti come “studente brillante”, e tutelarne la privacy oltre ogni ostacolo, e gettare al contempo la donna in pasto alla pubblica e feroce opinione. Il tutto in uno storytelling da film in cui Pierino spia la Fenech dalla toppa della porta di queste vecchie classi di liceo italiane con tanto di cartina politica affissa al muro con le puntine. Non vi è motivo di cronaca, alcuno, per cui i dettagli privati di questa faccenda venissero resi pubblici. Ma fa ancora più male avvertire tutto il peso delle due misure quando ricordo che non più di qualche settimana fa uno stimato professionista che insegnava in un ateneo partenopeo è finito al centro di un’indagine della Guardia di Finanza con un sequestro a suo carico di 950mila euro per aver svolto incarichi di consulenza incompatibili con la sua funzione pubblica e senza l’autorizzazione accademica. Ben altro peso, ben altro interesse pubblico rispetto alle beghe di un liceo capitolino. In quel caso, però, la privacy del presunto truffatore (come è giusto che sia, sia chiaro) è stata garantita. Che fortuna, eh, verrebbe da dire al docente in questione: altro che presidi ispiratrici di facili pruriti che fruttano qualche click. A scapito della decenza di chiamarsi giornalisti.
*esperto di comunicazione digitale