Una ricerca della Northeastern University di Boston ha messo in discussione l’effettiva sostenibilità dell’elettronica definita “biodegradabile”. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica `npj Flexible Electronics`, ha rivelato che la scomparsa visiva di questi apparecchi non garantisce l’assenza di impatti ambientali a lungo termine.
I ricercatori hanno analizzato sistematicamente cosa rimane dopo la degradazione dei componenti. Anche quando i circuiti sembrano dissolti, possono persistere nell’ecosistema microplastiche, polimeri e complessi metallici con potenziali effetti negativi sulla salute e sull’ambiente. La semplice capacità di un apparecchio di disintegrarsi non è quindi sufficiente per considerarlo ecologico.
Durante il processo di degradazione, hanno spiegato gli autori, avvengono interazioni complesse tra materiali organici, polimeri sintetici e metalli. Queste reazioni possono generare nuove molecole, talvolta più persistenti dei materiali originali. Questa scoperta è cruciale, considerando che i rifiuti elettronici globali raggiungeranno circa 75 milioni di tonnellate entro il 2030.
Un primo esperimento ha monitorato per 18 mesi un sensore di pressione parzialmente degradabile, composto da fibroina della seta, rame e altri polimeri. Sebbene i materiali naturali si siano decomposti rapidamente, il rame ha rilasciato ioni che, in concentrazioni elevate, possono risultare dannosi per piante e organismi del suolo. Dopo un anno e mezzo, circa il 90% del sensore si è degradato, ma una parte dei sottoprodotti è rimasta in soluzione.
Un secondo caso ha riguardato un fotodiodo progettato per essere completamente degradabile, basato su acetato di cellulosa e polimeri conduttivi. Mentre la cellulosa si è dissolta in poche settimane, i test hanno indicato che la completa degradazione del polimero sintetico potrebbe richiedere oltre 8 anni. In questo lungo periodo, il materiale forma derivati del polistirene e microplastiche quasi indistruttibili.
Lo studio ha tracciato una netta distinzione tra materiali naturali come cellulosa e seta, che si degradano più velocemente in composti innocui, e polimeri sintetici performanti ma problematici. I ricercatori hanno inoltre sottolineato che molte valutazioni di biocompatibilità si basano su test di breve durata, inadeguati a prevedere effetti che si manifestano su scale temporali di anni.
L’impatto ambientale, inoltre, non si limita alla fase di smaltimento. La produzione di componenti elettronici rimane un processo lineare e ad alto consumo di risorse. Per realizzare un singolo wafer di silicio, ad esempio, sono stati necessari fino a 6.000 litri di acqua, che diventa poi un refluo contaminato.
In conclusione, gli scienziati hanno proposto una ridefinizione più rigorosa dei termini “biodegradabile” e “sostenibile”. La vera sostenibilità deve considerare l’intero ciclo di vita di un prodotto: dalla scelta delle materie prime ai processi produttivi, fino alla natura dei sottoprodotti finali. Solo così si potrà evitare di sostituire i rifiuti visibili con forme di inquinamento invisibili ma altrettanto persistenti.




















