ROMA – Sarebbero bastate 500mila firme. Ma la proposta di referendum sull’eutanasia legale, promossa dall’associazione ‘Luca Coscioni’, insieme ad altri attivisti, movimenti e partiti, – prima campagna al mondo a utilizzare la firma digitale – ha raccolto 1 milione e 220mila sottoscrizioni che domani verranno depositate in Cassazione. “Questo successo è la dimostrazione che le libertà e i diritti civili sono più avanti della politica e che le persone vogliono finalmente vedere riconosciuto il diritto a non dover subire una sofferenza contro la propria volontà”, commenta con LaPresse Marco Cappato, Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. Un risultato che, secondo Cappato, dimostra quanto questa sia “una questione avvertita come urgente e importante, che fa parte del vissuto delle persone”, sottolinea l’attivista che si augura che il referendum possa “aiutare la politica a tornare in contatto con le esigenze della società”.
Una volta controllate le firme in Cassazione, la Corte Costituzionale dovrà esprimersi sull’ammissibilità del quesito referendario con cui si vuole chiedere l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale. Articolo che, ad oggi, punisce con la reclusione da sei a quindici anni chi causa la morte di una persona con il suo consenso. “Poi finalmente in primavera il popolo italiano potrà scegliere tra l’eutanasia clandestina, che c’è già nel nostro Paese, e l’eutanasia legale fatta di regole, responsabilità e conoscenza”, prosegue Cappato.
“Siamo vittime di una cultura dello scarto”, è il monito di Papa Francesco. La prospettiva di un referendum sull’eutanasia, difatti, “suscita una grave inquietudine” nel mondo cattolico, come ribadito dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, la scorsa settimana. La Chiesa italiana vede nell’iniziativa “una sconfitta dell’umano” e ricorda che “autorevoli giuristi hanno messo in evidenza serie problematiche di compatibilità costituzionale nel quesito”. I vescovi, nel corso del Consiglio episcopale permanente autunnale, hanno dichiarato che “aiutare a morire non è conquista di civiltà né di libertà”, ma “una pericolosa affermazione della deriva efficientista e nichilista che serpeggia nella società”. E hanno invitato a “rivolgere l’attenzione verso coloro che manifestano consapevolmente degli interrogativi sul senso del vivere e del morire”, spesso persone con “una malattia senza apparente via di uscita”, concentrandosi sulle “cure palliative” e sulle “terapie del dolore”.
“Credo che non si possa parlare di ‘cultura dello scarto’ nella nostra società, in riferimento all’eutanasia”, spiega a LaPresse Mina Welby, co-presidente dell’associazione ‘Luca Coscioni’. “Lo scarto non è quello che promuoviamo con la nostra associazione: nella nostra battaglia per l’eutanasia legale, per poter lasciare tutti liberi di scegliere fino alla fine della propria vita. Lo scarto – sottolinea la vedova di Piergiorgio Welby – è non dar voce a chi ha bisogno, è non ascoltare chi chiede aiuto, gli anziani, i malati, ma anche i giovani, le famiglie povere. L’eutanasia è un’altra cosa. Eutanasia è permettere a chi lo chiede di poter porre fine alle proprie sofferenze e di avere una morte dignitosa. Non soffrire più non è un delitto ma un diritto”.
di Giusi Brega