Ha suscitato, in queste ore, grande interesse la sentenza con la quale la Corte di Appello di Napoli ha assolto i fratelli Cosentino, titolari dell’Aversana Petroli, dalle gravi accuse ipotizzate dagli inquirenti, ivi compresa quella dell’utilizzo, ai fini estorsivi, del metodo mafioso. La cosa potrebbe finire con queste semplici evidenze, frutto di una storia giudiziaria di per sé stessa complessa e che così gravi danni ha arrecato alla carriera politica di un uomo, Nicola Cosentino, che era ritenuto l’astro nascente della politica in Campania. E che, da solo, aveva portato Forza Italia da un minimo storico del 9% ai fasti di un 51% raccolto dal Pdl nelle politiche del 2008: quasi un milione di voti che neanche Alcide De Gasperi era stato in grado di raccogliere nella famosa battaglia del 1948 vinta dalla Democrazia Cristiana contro il fronte socialcomunista. Tuttavia, da questa stessa storia, deriva una riflessione legata all’ingiusta (stante la sentenza di assoluzione) detenzione cui è stato sottoposto l’ex Sottosegretario all’Economia. Un detenzione che, paradossalmente, lo avrebbe portato a commettere…un reato: quello di concorso in corruzione di un agente di custodia. Se pur si sia trattata di corruzione basata sulla ricezione di qualche genere di conforto alimentare (mozzarelle e rocco babà), di una penna stilografica, di un iPod per ascoltare musica e di medicinali non disponibili nell’infermeria del carcere, la condanna è stata più che esemplare: 4 anni, per altro già scontati con la detenzione preventiva. Ai giuristi e ai tribunali decidere, in futuro, se possa essere condannato un detenuto che non doveva essere tale in quanto sottoposto ad una detenzione ritenuta ingiusta dalla Corte di Appello. Quel che ci interessa evidenziare, in questa sede, è che da tale paradossale vicenda si traggono due elementari considerazioni. La prima è che la politica è talmente debole e talmente prona ad un potere inconferente ed irresponsabile come quello della magistratura, da divenirne subalterna. In sintesi, il consenso del risultato elettorale che dovrebbe essere la cifra per misurare lo spessore di un politico (e conferire a questo incarichi pubblici), può essere cancellato dalla sera alla mattina dall’assunzione di teoremi accusatori aleatori e dalla gogna mediatica cui il politico stesso finisce per essere assoggettato. Non è inoltre il caso di trascurare che il pm che ha inquisito per la prima volta Nicola Cosentino sia stato chiamato a ricoprire il ruolo di assessore nella prima giunta del sindaco di Napoli Luigi De Magistris e che quest’ultimo abbia poi commentato la sentenza di assoluzione di Cosentino con una cinica ma eloquente espressione: “Non mi interessa la sentenza, mi interessa che Cosentino sia stato cancellato dalla vita politica”. Tanto autorizzerebbe, per paradigma logico, ad affermare che le azioni giudiziarie intentate contro l’ex dominus di FI abbiano potuto avere, nell’animo di qualche inquirente, lo scopo, appunto, di distruggerlo politicamente. La seconda considerazione riguarda più in generale la necessità di riformare la giustizia in Italia che, come nel caso della sicurezza e dell’innocuità dei vaccini, è diventato argomento da utilizzare per la polemica politica e per mostrarsi agli occhi degli uditori più puri tra i puri. La riforma della giustizia è, invece, un caposaldo dell’ammodernamento dello Stato. Una necessità impellente per ribadire che nello Stato di diritto la morale risiede nella legge e che la legge deve essere assoggettata all’etica pubblica e non alla morale personale di una frangia di forcaioli politicamente orientata che intende utilizzarla come un’arma. E’ interesse degli stessi magistrati, in grandissima parte gente che lavora con serietà e competenza, che tale riforma venga adottata ponendo l’istituto del pubblico ministero sotto la diretta responsabilità del Procuratore della Repubblica, evitando che ogni singolo pm, pur invocando l’assoluta autonomia da tutto e da tutti, possa cimentarsi nelle più ardite congetture per montare processi contro gente famosa, per ottenere un ritorno di notorietà e di pubblicità da poter poi spendere nel corso della propria carriera di magistrato oppure, laddove tolta la toga, in quella politica. Una riforma che separi le carriere distinguendo tra chi giudica e chi indaga, facendo della terzietà del magistrato che giudica, il punto basilare della certezza del diritto e dell’autonomia di giudizio rispetto all’ingerenza ed alla tracotanza di certi pubblici ministeri che andrebbero assoggettati a giudizio di responsabilità (con minori possibilità di carriera) per colpe derivanti anche da imperizia e negligenza. Solo a riforma della giustizia fatta potremmo affermare, come il mugnaio di San Souci, che anche in Italia “c’è un giudice a Berlino”.
Vincenzo D’Anna, presidente nazionale dell’Ordine dei Biologi