CASERTA – Eliminarlo, alleggerirlo, restringere il suo campo di applicazione, modificare l’iter con cui viene disposto, lasciarlo così come è. Con il caso Cospito, il 41 bis negli ultimi mesi ha riguadagnato il centro del dibattito politico. E come succede con le questioni delicate, quando vengono affrontate con intensità e per tanto tempo, si registrano divisioni. E il ‘carcere duro’ divide. “Ma resta una misura importante e in molti casi necessaria”: ne è convinto Raffaello Magi, in magistratura dal 1993 e dal 2013 consigliere presso la Corte di Cassazione.
Nasce, però, in un periodo storico fortunatamente diverso e distante da quello che l’Italia vive adesso. Era il tempo della mafia delle stragi. Ora non è uno strumento anacronistico?
Dal 1992 ad oggi gli sono state apportate modifiche che lo hanno reso più compatibile con i nostri principi costituzionali.
Ma la criminalità organizzata non è più quella degli anni Novanta….
E’ vero. Adesso è caratterizzata da una minore aggressività, ma il 41 bis, a mio avviso, è necessario per impedire o rendere difficili i contatti che dal carcere esponenti di vertice dei gruppi mafiosi possono avere con l’ambiente esterno. E’ fondamentale soprattutto quando si tratta di soggetti che sono influenti in sistemi criminali ancora attivi.
Possiamo dire che è tra chi ‘difende’ il 41 bis.
Sì. Mi iscrivo nella lista di chi ritiene che sia uno strumento ancora necessario.
La sua utilità è direttamente proporzionale alla pericolosità del fenomeno mafioso in Italia…
E’ chiaro che bisogna farne un uso non generalizzato, ma mirato. Non dobbiamo dimenticare quello che è successo in passato. Senza il 41 bis non si sarebbero interrotti i flussi di comunicazione tra detenuti e chi è all’esterno dei penitenziari.
C’è chi lo indica come un mero strumento usato dagli inquirenti per spingere gli esponenti delle cosche al ‘pentimento’.
Chi sceglie di collaborare con la giustizia non lo fa perché è sottoposto al 41 bis. Chi lo fa, a mio avviso, è mosso da altre ragioni.
Tipo?
C’è chi collabora perché si sente semplicemente sconfitto dallo Stato, chi perché nel gruppo di cui faceva parte era stato messo ai margini. E qualcuno lo fa anche per scelta etica.
A disporre il 41 bis non è un giudice, ma il ministro della Giustizia. Un provvedimento che viene emesso, anche su richiesta del ministro dell’Interno, dopo aver raccolto informazioni dalle Procure e dagli organi di polizia centrale e da quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata.
E ritengo che su questo aspetto si possa tornare a riflettere. L’attribuzione del provvedimento iniziale al ministro, che poi, in caso di ricorso del detenuto, deve essere convalidato dalla Sorveglianza di Roma, fu decisa per evitare possibili problemi di sovraesposizione della magistratura dopo il periodo delle stragi.
Un modo per responsabilizzare la parte politica nella lotta alla mafia…
Si potrebbe migliorare sui tempi.
Cioè?
Tra il provvedimento del ministro e la sua valutazione da parte dei giudici spesso trascorrono diversi mesi, a volte anni. Per evitarlo si potrebbe rafforzare l’organico del Tribunale di sorveglianza di Roma, stabilire che l’atto deve essere esaminato entro trenta, sessanta giorni…
Oppure?
Ripensare a chi affidare il compito di emettere il provvedimento.
Non il ministro ma l’autorità giudiziaria.
Esatto. E’ una possibilità.
Ricapitolando. E’ uno strumento importante. Il radicamento del fenomeno mafioso in Italia è ancora tale da far ritenere il 41 bis centrale nel contrasto alle organizzazioni criminali. Ma si potrebbe intervenire sui ‘tempi’: impegnarsi per non far trascorrere anni tra la data in cui il provvedimento viene disposto dal ministro e, in caso di reclamo, quando viene valutato dal Tribunale di sorveglianza di Roma. Ma umanamente? Al di là di ciò che una persona ha fatto per meritarsi il ‘carcere duro’, non c’è il rischio di ‘vittimizzare’ il criminale?
La Corte costituzionale è già intervenuta più volte per rendere questo tipo di detenzione non inumana. Ha eliminato diversi divieti, confermando, però, le limitazioni dei colloqui, la socialità ristretta, la corrispondenza controllata. Determina una condizione di isolamento. Ma, ripeto, è importante e ne va fatto un uso ragionato.
E sul campo della sua applicazione?
Va applicato a chi ha capacità di orientare realmente dal carcere le condotte di chi sta fuori.
© RIPRODUZIONE
RISERVATA