La fotografia del 6° Rapporto Gimbe sullo stato del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), anche alla luce del Disegno di Legge sull’autonomia differenziata, lascia pochi margini interpretativi su dove ci siamo già incamminati, purtroppo.Continuare nella “cristallizzazione” dei rapporti Nord-Sud, sul terreno di un diritto infungibile, necessario e costituzionalmente garantito, non farà altro che acuire le distanze territoriali. Già prima dell’autonomia differenziata, ovvero negli ultimi 15 anni, il SSN è stato indebolito, relegando l’intero sistema delle cure dalla tutela unica e insopprimibile a ben 21 sistemi sanitari regionali.Durante e dopo il Covid-19 tale situazione si è enormemente aggravata, con delle punte di non ritorno in relazione: 1) tempi di attesa; 2) chiusura/affollamento dei pronto soccorso; 3) pensionamento e mancate sostituzioni di medici e pediatri di famiglia; 4) migrazione sanitaria. Tutti pericolosi motivi di “rinuncia alle cure”.
Eppure in sanità, nel nostro paese, ci sono i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ovvero le prestazioni minime e indispensabili da fornire a tutti i cittadini gratuitamente, ma questo non evita le disparità che esistono in sanità tra Nord e Sud. Non è un caso se la “mobilità sanitaria” vede strutturalmente svantaggiato il Mezzogiorno. La sola Regione Campania presenta un saldo negativo, pari a circa -300 milioni ogni anno, poiché una fetta di cittadini campani è costretta a curarsi fuori Regione, più precisamente al Nord.
L’autonomia differenziata non farà altro che peggiorare il rapporto tra meridione e settentrione per l’accesso al sistema delle cure obbligatorie. Le Regioni del Nord che chiedono più autonomia (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) sono esattamente quelle che, attualmente, “ricevono” la maggior parte dei pazienti del Mezzogiorno (94,1%), incamerando quelle cifre di chi non riesce a curarsi al Sud. Un travaso di soldi, da giù a su, che vale qualche miliardo di euro l’anno.
Questa impietosa fotografia porta a capire che la discussione sui Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), attualmente in definizione, non porterà da nessuna parte se quest’ultimi si ridurranno ad una mera “elencazione aggiornata” delle necessità dei cittadini. Il problema è sì quantitativo, ovvero mettere i cittadini nella condizione materiale di poter esigere questi nuovi diritti, ma anche e soprattutto stabilire i livelli qualitativi di queste prestazioni. Una “sanità della qualità” che recuperi un modello organizzativo di assistenza territoriale, fabbisogni di personale, il coordinamento tra ospedale e territorio. Ma che allo stesso momento faccia arretrare frodi, acquisti a costi “fuori” mercato e privilegi.
Tutto questo un tempo avrebbe fatto pensare alla “riforma” del SSN, come una rivoluzione che permettesse una “difesa della salute” lontana da contese politiche e da gruppi di interesse. Ma principalmente un nuovo intendimento suffragato da un investimento pubblico capace di invertire il trend discendente degli ultimi decenni.
Purtroppo siamo lontani da ciò se con l’autonomia differenziata – concepita da chi vuole ulteriormente spaccare il paese con l’idea di non immettere un solo euro in più rispetto ad oggi – non si intende porre i cittadini, tutti, nella condizione di usufruire di quei nuovi diritti sociali e politici sanciti dalla Costituzione.
Non è bastata una pandemia a dimostrare che la divisione territoriale non giova a nessuno, che lo spezzettamento regionale di un diritto incancellabile ha prodotto ulteriore problemi, piuttosto che risolverli diversamente. Non ce ne faremo mai una ragione.
di Raffaele Carotenuto, scrittore e meridionalista