“Su fratelli, su compagni, su, venite in fitta schiera: sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir…”. Comincia così l’inno dei lavoratori che Filippo Turati, uno dei padri del socialismo italiano, compose nel 1886 e che divenne l’emblema delle lotte contadine ed operaie di quel periodo. Da quella matrice, pacifista e rivendicatrice del sollievo e del riscatto degli esseri umani sfruttati, nella nascente rivoluzione industriale, sorse il movimento socialista italiano, uno degli antesignani in Europa. La nobiltà degli ideali e dei propositi accendevano anche i cuori degli intellettuali e dei piccoli borghesi “toccati” dalle condizioni in cui versavano i ceti sociali più bassi e più esposti allo sfruttamento nella nascente industria manifatturiera, nonché dei latifondisti e dagli agrari. Furono quelli anni epici, fatti di scontri virulenti tra un capitalismo ancora acerbo e per certi versi arrogante ed auto referenziale, e le nascenti organizzazioni politiche e sindacali che tutelavano i ceti meno abbienti. Tra i due contendenti schierati su basi e visioni antitetiche del modello sociale ed economico, da realizzare nel giovane Stato post risorgimentale, non a caso si pose la Chiesa, preoccupata anch’essa delle sorti dei più umili. Ma, al tempo stesso, messasi in antitesi rispetto all’ateismo socialista ed alla lotta alla proprietà privata suggerita dai “rossi”. Con l’enciclica “Rerum Novarum” Papa Leone XIII tracciò una nuova strada intermedia tra socialismo e capitalismo, proteggendo la proprietà, in quanto ritenuta il frutto del risparmio derivante dal lavoro. Il Pontefice biasimò ogni forma di sfruttamento ponendo l’uomo (con la sua dignità, libertà e diritti), al centro di ogni società e di ogni tipologia di Stato e di modello economico. Nel pieno della prima guerra mondiale la rivoluzione russa (ottobre 1917) sfornò una nuova forma di socialismo radicale, fondata sulla base dei dettami del marxismo, chiamata “comunismo”. Una devianza radicale, quella dei Soviet, che intese applicare alla lettera le teorie filosofiche ed economiche di Karl Marx e Friedrich Engels, edificando uno Stato tirannico ed egalitario ottenuto con la forzosa imposizione letterale dell’uguaglianza dei cittadini. Fu questa la scintilla che al congresso di Livorno nel 1921 spaccò i socialisti riformisti da quelli rivoluzionari che abbandonarono il partito per andare a fondare il Partito dei Comunisti Italiani. Da quel giorno – escludendo la parentesi del Fascismo che mise a tacere partiti e sindacati riducendo a dittatura la forma di democrazia parlamentare in vigore fino a quel momento – e fino al 9 novembre del 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino e del dissolvimento del blocco comunista sovietico , la sinistra più radicale rimase più o meno quella che aveva creduto e lavorato per realizzare gli enunciati marxisti-leninisti. Da quel crollo si è andati incontro, nel corso degli anni, soprattutto nel nostro Paese, ad una revisione critica se non proprio alla riedizione, ripulita e corretta, di quelle tesi ormai anacronistiche e rigettate dal mondo intero: una vera e propria palingenesi costante con nuove sigle (Pds, Ds, Pd) e nuovi enunciati, surrettiziamente e silenziosamente accostati alla liberal democrazia. Una progressiva e radicale mutazione di quello che era stato il più grande partito comunista d’Europa. Tuttavia non vi fu mai un esplicita abiura della vecchia classe dirigente dell’ex PCI che, per paradosso, cominciarono a dare lezioni di un pseudo liberalismo. Fallito l’ultimo tentativo operato da Walter Veltroni di trasformare i Dem in un partito liberale a vocazione maggioritaria, quella forza politica è andata via via scemando in termini di voti e di peso. Successivamente è venuto il rottamatore Renzi, democristiano di fede e predatore di natura, bravo quanto presuntuoso; poi, ancora, ecco Zingaretti, incolore ed inconsistente; a ruota, è spuntato il giovane Letta, infine è stata la volta di Elly Schlein che ha riportato tutto il vecchio armamentario comunista alla ribalta. Quest’ultima pescata in quel gioco chiamato “ primarie” che affida alla estemporaneità le scelte della dirigenza. Da questa imprevedibilità e dal mai sopito desiderio della novità è cominciata nel PD una restaurazione bella e buona. Una riproposizione dei vecchi arnesi ideologici e semantici, senza mai rendersi conto di un’elementare verità: il proletariato, come immaginato nei tempi passati, non esiste più. Certo ci sono ancora diseguaglianze e ingiustizie da riparare, perequazioni da realizzare, ma il modello di riferimento sociale è cambiato e con esso l’universo di riferimento. La cecità della Schlein e di chi l’asseconda su quelle basi barricadiere è più che chiara è confermata dalla debacle nelle recenti elezioni. Oggi tra ceto medio borghese e classe operaia non c’è gran divario:,nessuna sostanziale differenza nella capacità d’acquisto dei beni primari, negli stili di vita, nel potersi permettere l’uso dei più moderni strumenti e delle griffe alla moda. Insomma manca, nella buona sostanza, il brodo di coltura nel quale si sviluppa lo scontro sociale. Restano ovviamente le fasce di indigenza, che non sono sempre sovrapponibili a quelle della povertà, le sperequazioni ed i contrasti, gli odi e le invidie sociali, la demagogia assistenziale e clientelare, fenomeni che possono essere gestiti nel civile confronto di un contesto nel quale Stato e mercato fanno ciascuno la propria parte. Qualcuno avvisi Schlein che il sol dell’avvenir è’ già tramontato.
*già parlamentare
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