È di questi giorni la polemica che monta, sempre più aspra, tra le forze politiche e quelle sindacali, sulla vicenda riguardante la minacciata chiusura dello stabilimento Ilva di Taranto. Una minaccia che sembra avere i contorni di un proposito serio e determinato, eppure suscettibile di modifica in prospettiva da parte della proprietà, l’Indiana ArcelorMittal, che ha “affittato” lo stabilimento che fu della famiglia Riva. Per meglio comprendere l’enormità dalle risorse economiche già impegnate dallo Stato, ovvero dei soldi del contribuente già sperperati nel corso degli anni, in questa intricata vicenda industriale, sarà bene ricordare ai lettori qualche significativo precedente.
La famiglia Riva acquista il polo Tarantino dalle partecipate statali, allorquando la crisi dell’acciaio italiano si manifesta in tutta la sua virulenza. La crisi ha origine sia per i vincoli alla produzione, posti dalla Comunità Europea agli esuberi prodotti nel Belpaese, sia per i prezzi molto alti dell’acciaio “tricolore”, che sconta i maggiori costi derivanti della politica energetica italiana. Per produrre acciaio negli altiforni occorrono, infatti, altissime temperature e queste necessitano di energia. Ora, se quest’ultima costa il 30 per cento in più rispetto a quella erogata nelle altre Nazioni (approvvigionata dall’energia nucleare), ecco che il costo dell’acciaio italiano lievita rispetto alla concorrenza. Ci si aggiunga la pessima gestione dell’azienda statale, piena di costi aggiuntivi di tipo politico clientelare e sindacale, ed ecco che il risultato totale sarà quello di una gestione economica largamente in perdita. Lo stesso era già capitato a Bagnoli e capiterà a Terni. I Riva acquistano a prezzo stracciato, sette miliardi di euro, lo stabilimento. Con accorgimenti di management industriale e qualche investimento tecnologico riescono a produrre in attivo con introiti di oltre venti miliardi. Un bell’affare in una ventina di anni di esercizio. Gli è però che nel contratto di cessione sottoscritto dallo Stato erano previste bonifiche ambientali ed adeguamenti tecnologici per circa 10 miliardi mai realizzati se non per una piccola parte.
Il sistema dei compromessi politico sindacali (leggi salvaguardia dei tredicimila posti di lavoro), crea una rete di coperture anche di tipo sanitario che vede la Regione Puglia, con l’allora governatore Vendola in prima fila, coprire le inadempienze dei Riva. Con buona pace delle morti incipienti che si registrano tra operai e zone limitrofe allo stabilimento per i veleni sparsi dalla “fabbrica d’acciaio”. Di recente la Scienza ha stabilito che i metalli pesanti, le nanoparticelle sparse coi fumi, le diossine, le sostanze chimiche disperse nell’ambiente, producono fenomeni tossici, nocivi ed epigenetici, ovvero di modifica del DNA delle persone e quindi malattie tumorali ed altre gravi patologie. Le coperture politiche ed i compromessi sindacali non reggono più e lo scandalo investe i Riva che mettono in liquidazione lo stabilimento.
Storia antica quella dello Statalismo, che si traduce nella tragedia di uno Stato che pretende d’essere anche imprenditore ma che, alla fine, lascia agli altri produrre utili per poi pubblicizzare le perdite, accollandole alla comunità. Ma come va a finire? Semplice. Lo Stato riacquista la responsabilità dello stabilimento sotto l’imperativo di dover disinquinare e bonificare l’area dell’Ilva e con essa gli oneri economici per farlo! Partono a raffica, ed a vuoto, le inchieste giudiziarie ed a nulla valgono, in Senato, le voci di dissenso affinché lo Stato non intervenga con danaro pubblico in questa vicenda. Si stanziano un paio di miliardi con l’intesa di sequestrare una identica cifra di danaro depositata in una banca svizzera dai Riva, identificata dalla Procura della Repubblica, che contesta loro il danno ambientale. Campa cavallo! Non serve a niente. Salvati i posti di lavoro, l’eterno ricatto, tutto torna tranquillo finquando la ArcelorMittal, azienda indiana, non si aggiudica, a prezzi ancora più stracciati, la gara di offerta pubblica ed “acquista” l’accieria tarantina. Ma gli Indiani sono fior di imprenditori, espressione di un capitalismo fiorente che ha trasformato l’India in un colosso economico mondiale.
Di conseguenza chiedono una “lex specialis” che garantisca loro l’immunità per i delitti ambientali ed i danni provocati in passato. Non sono poche, infatti, le cause intentate per tali motivi dai cittadini e dai dipendenti vittime dell’inquinamento. Per dirla in napoletano “ca’ niusciene è fesse”!! Lo stabilimento, loro, sono anche pronto a gestirlo, ma perché pagare per rogne di cui loro non hanno colpa? Insomma: è la richiesta del famoso “scudo penale”. Che prima viene concesso e poi – e qui viene il bello – ritirato, con un emendamento del M5S nel “decreto imprese”. Apriti cielo! Il colosso dell’acciaio non ci sta e sbatte la porta. La maggioranza di governo senza comunanza di idee e valori tra PD, Iv e 5Stelle, va in frantumi. Coloro che hanno preteso di ridurre la politica ad un fatto opportunistico, aritmetico, senza riferimenti, a modello socio economico, senza un’idea della natura e della funzione dello Stato, falliscono miseramente innanzi ai problemi oppure ripetono gli stessi errori e sottoscrivono i vecchi compromessi. Questa è la morale che germina dalla vicenda Ilva, come accadde per la Chimica di Stato, l’affare Montedison, ed in precedenza con i finanziamenti che l’ENI erogo’ sottobanco ai partiti politici. L’eredità di Enrico Mattei, presidente dell’ENI ed inventore del sistema e dei compromessi tra affari e politica, è ancora viva e con essi il malaffare e la svendita dello Stato.