Mi è capitato di ritrovare sui social un brano di Henri-Frederic Amiel, intellettuale svizzero poco conosciuto nel nostro Paese così come lo è stato il rigore etico della religione da lui professata: il Calvinismo. In una nazione che ha avuto nel Papato uno dei propri punti di forza, sia materiali che spirituali, la controriforma voluta da Martin Lutero e Jehan Cauvin (Giovanni Calvino), ha avuto scarsa eco. In particolare, quello che sembra esser stato ostativo alla diffusione dei principi morali del protestantesimo è stata la natura stessa dell’indole italiana. Eppure fu grazie a Lutero che si cominciò a puntare il dito contro l’uso e l’abuso che Santa Romana Ecclesia faceva delle indulgenze, sfociando finanche nella simonia, ovvero nel commercio dei beni spirituali in cambio di soldi. Ed ancor di più lo fu la dottrina che scaturì dalle 95 regole che l’ex monaco domenicano affisse sulla porta della cattedrale di Wittemberg, dalle quali prese vita la sua “rivoluzione”. Insomma: oltre che la dottrina fu il comune senso della morale ad essere indirizzato verso una nuova concezione, sopprimendo l’egoismo dei singoli e cancellando l’idea di un Dio arcigno e vendicativo, che immergeva chiunque avesse peccato nelle fiamme eterne dell’inferno. Un Dio che fu interpretato, invece, amorevole e misericordioso che cancellò i peccati per amore dei suoi figli, che non avevano bisogno di acquistare indulgenze per salvarsi l’anima. Un Dio d’amore, per dirla in altre parole, che accettava la felicità e il benessere del popolo come espressione della sua stessa misericordia e benevolenza. Cancellato il concetto che il cristiano dovesse poter vivere di stenti e di indigenza sulla faccia della terra per poi guadagnarsi il paradiso aderendo al commercio delle indulgenze, cambiò anche il modo di vedere le cose, con la liberazione degli spiriti ardimentosi e lo sviluppo dei commerci a discapito dell’apodittica interpretazione che il denaro altro non fosse che lo sterco del diavolo. Insomma si trattò di una rivoluzione nata nella Chiesa e per la Chiesa ma che riverberò potentissimi e straordinari cambiamenti nella mentalità e nei modi stessi di essere della società contemporanea e futura. Ma torniamo, dopo questo lungo prologo, al brano di Amiel, illustrandone i principi dai quali scaturisce la filosofia del letterato elvetico, premonitrice dei tempi che poi sono arrivati dopo oltre un secolo. Essi sono una dimostrazione di quel che spesso andiamo scrivendo su queste stesse colonne e che si leggono, ancor meglio illustrate, negli editoriali proposti dai grandi giornali nazionali, nei saggi e nelle interviste di illustri sociologi, etologi e psicologi, studiosi dei costumi e delle dinamiche sociali. Studiosi e commentatori che tentano di raccapezzarsi innanzi al veloce evolvere della morale privata e dell’etica pubblica, della distruzione di vecchie e solide istituzioni sociali e umane, della vorticosa metamorfosi di una società dove tutto ha un prezzo e niente più ha un valore. Di come sia sorto un nuovo umanesimo digitale, vuoto di principii e pieno di diritti rivendicati all’insegna di una presunta libertà senza regole, emancipante del vivere. Ed allora si resta basiti innanzi ai brani scritti nel diario del filosofo svizzero alla fine dell’Ottocento. “Le masse saranno sempre al di sotto della media. La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà, la democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi, ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell’uguaglianza, che dispensa l’ignorante dall’istruirsi, l’imbecille dal giudicarsi, il bambino dall’essere uomo e il delinquente dal correggersi. Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconoscerà la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle apparenze si paga”. Questo scriveva Amiel alla fine dell’Ottocento. Concetti, i suoi, che sembrano scritti in questi giorni come fotografia di quello che accade intorno a noi. Ma non si tratta di preveggenza o di premonizione, della capacità di vedere il futuro. Nossignore. Si tratta, invece, di intuire e dedurre quali conseguenze avrebbero pagato gli individui ed il corpo sociale che li contiene, se e quando fosse venuta meno l’etica pubblica e la scala dei valori morali consustanziali all’uomo. Colui che sa leggere le stelle col sestante sa anche tracciare la rotta anzitempo, indipendentemente da quanto lungo siano il viaggio e l’approdo. Quando però il sestante si rompe è allora prevedibile perdere la rotta e con essa il porto agognato. Non conta, infatti, lo stato del moto ondoso né i venti che spingono la vela. Quello di cui c’è bisogno sono i punti di riferimento e gli strumenti per calcolarli. Alzi la mano chi riesce di questi tempi a tracciare la rotta futura senza l’ausilio di un’Etica ed una morale certa di riferimento.