Sui canali Sky sta andando in onda un film di qualche anno fa, “Il Divo”, sulle vicende processuali del defunto senatore Giulio Andreotti. Il regista napoletano Paolo Sorrentino, in usuale accoppiata con il bravissimo Toni Servillo, non era nuovo a questo tipo di ritratti, avendo già prodotto “Loro” su Silvio Berlusconi. “Un film è scoprire un mistero. E in Italia molti misteri sono legati strettamente alla Chiesa, alla politica, alla mafia. Mi interessa raccontare questi mondi” aveva commentato, a suo tempo, Sorrentino, offrendo una chiave di lettura della società nostrana basata sui soliti luoghi comuni, sulle idiosincrasie politiche e sugli stereotipi più in voga del momento come il voler identificare nel potere politico una finalità mefistofelica, un fondo di malvagità più che di idealità. La politica viene vista insomma come il luogo nel quale agiscono loschi personaggi ai quali non accreditare altre finalità che quelle di alimentare il potere fine a se stesso e la capacità di detenerlo a qualunque costo. Non si può dire che questo pregiudizio sia frutto di un’analisi originale e acculturata, basata sulla storia della funzione svolta dalla politica intesa come strumento per governare la società e garantire la pace sociale. Uno strumento peraltro insostituibile, per conciliare la diversità degli uomini e del consesso civico preso nel suo complesso. D’altronde mentre il filosofo, rivolgendosi all’archetipo dell’uomo così come immaginato, sciorina sintesi ultimative del proprio pensiero valide per tutti, chi “governa” ha un compito ben più arduo: armonizzare la diversità degli esseri umani nei loro reali pregi e difetti. Insomma, per certi “pensatori”, la politica continua ad essere scambiata con il potere (e il suo esercizio ad personam) più che con un servizio da rendere alla collettività. Gli artisti in Italia se non organici ai partiti (quasi tutti marxisti), hanno sempre mostrato la puzza sotto il naso verso “onorevoli” e amministratori della cosa pubblica, tutt’al più considerati come degli sciocchi oppure dei furbastri. Non fa evidentemente eccezione Sorrentino. Il cinema di denuncia, orientato ideologicamente, ha avuto infatti grandi colpe nel discreditare la classe dirigente assumendo che ci sia un popolo buono e candido amministrato da marziani malvagi ed egoisti. Tuttavia in democrazia gli eletti somigliano agli elettori che li scelgono liberamente se non per reconditi scopi personali, l’ultimo dei quali è l’assistenzialismo diffuso, derivante dal reddito di cittadinanza. Ne è scaturita un’idea filtrata attraverso larghi strati della popolazione e da quest’ultima poi sintetizzata con l’aforisma che sia “tutto un magna magna”. Nel caso di Andreotti si è consolidata la convinzione che questo personaggio, scaltro e imperscrutabile, fosse addirittura la personificazione stessa della politica che poco si cura dei diritti e dei legittimi interessi della gente. E quale migliore sintesi, allora, per avallare questa ipotesi, se non quella che la malvagità del potere non avrebbe avuto nessuna remora morale a farsi sostenere dalla malavita organizzata? Che il consenso elettorale, se assegnato, nei decenni, a taluni partiti, non fosse altro che il frutto del malaffare? In questo brodo di cultura sono cresciuti decine di indagini e di indagati eccellenti da taluni pubblici ministeri, più votati a essere personaggi noti ed acclamati come eroi, che giudici sereni. Insomma: una legittima suspicione, ovvero il pregiudizio trasformato in un’apodittica verità che va solo dimostrata. Anni e anni di indagini, fiumi d’inchiostro versati per alimentare queste certezze: un salvacondotto conferito dalla pubblica opinione ai magistrati per imbastire processi che poi sono finiti, quasi sempre, letteralmente nel nulla. Andreotti, in tutta la pellicola, viene giudicato quasi per induzione, per diffusa opinione che si è fatta verità conclamata, ancorché mai provata. In uno Stato che si rispetti, nel quale tutti si riempiono la bocca della circostanza che sia stato costruito sulla certezza del diritto, per molto tempo il combinato disposto tra taluni partiti, gli artisti che fungevano da cinghia di trasmissione culturale e una certa editoria compiacente, hanno creato “colpevoli” per antonomasia. E’ ovvio che il caso Palamara, che ha svelato la pratica della scelte ai vertici delle procure per vicinanza a talune forze politiche di opposizione, ha corroborato molti di quei luoghi comuni alimentando, però, un clima di impunità finito sulle spalle degli indagatori. Solo alla fine del film, dopo i titoli di coda, compaiono le citazioni delle sentenze di assoluzione per il “Divo Giulio”, l’uomo che da De Gasperi in poi ha vissuto da protagonista la storia della Prima Repubblica. Si narrava che negli archivi di Andreotti fossero custoditi segreti mostruosi e indicibili, ma nulla di tutto questo è mai emerso neanche post mortem. L’unica verità venuta fuori è che i magistrati che lo indagarono hanno poi fatto carriera, ovviamente nei partiti di sinistra, dopo aver alimentato l’idea che quello della politica fosse l’antro di Belzebù.
*già parlamentare