Lavoro, nel 2021 oltre 1 mln di dimissioni, senza paracadute quasi 1 su 2

Foto LaPresse - Claudio Furlan in foto: centro per l'impiego

MILANO – Ciao, mi licenzio: nel secondo anno pandemico, il 2021, aumentano le dimissioni volontarie senza che, in un caso su due, si sia trovato un altro impiego sono un milione e 81 mila i dipendenti italiani che nei primi nove mesi del 2021 hanno deciso di lasciare volontariamente il lavoro e quasi uno su due, dopo aver rassegnato le dimissioni, non ha più un contratto attivo perché è alla ricerca di un’altra occupazione, per aver deciso di avviare un’attività in proprio o per scelte di vita diverse.

E’ la fotografia scattata dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con l’indagine ‘Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo lavoro’, basata sui dati delle Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, analizza il fenomeno della cessazione volontaria del rapporto di lavoro, che appare trasversale sotto diversi punti di vista.

Un fenomeno di cessazione volontaria del rapporto di lavoro, per cause diverse dal pensionamento che vede nel 2021 un valore cresciuto del 13,8% rispetto al 2019, quando il dato si attestava a quota 950 mila”. Il confronto tra i primi tre trimestri del 2019 e del 2021 evidenzia, infatti, che i dimissionari non sono solo giovani, con un basso livello di istruzione e residenti al Nord, ma che c’è un incremento tra i segmenti tradizionalmente meno interessati, in particolare adulti, laureati e tutti i lavori qualificati.

“Il fenomeno delle dimissioni volontarie non è nuovo per la realtà italiana, ma lo è il suo incremento – afferma Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -. Capiremo solo nei prossimi mesi la vera portata, soprattutto rispetto alle motivazioni, visto che non è possibile stimare all’interno della quota di lavoratori dimessi e non rioccupati quanti potrebbero aver deciso di avviare un’attività in proprio, essersi occupati irregolarmente o più semplicemente aver deciso di smettere di lavorare”.

L’analisi prosegue: “Ancora una volta emerge, tra l’altro, che le maggiori opportunità di rioccupazione riguardano quei profili tecnici e specializzati dove è più alto il divario domanda/offerta, mentre i più penalizzati nella ricollocazione successiva sono i lavoratori a basso tasso di formazione e occupazione. È urgente investire su queste direttrici per adeguare le competenze alla nuova realtà che ci troviamo a vivere nel post-pandemia”.

Si tratta – evidenzia il rapporto – di un fenomeno ancora lontano, per dimensioni ed estensioni, da quella “Great Resignation” che negli Stati Uniti sta mettendo in grossa difficoltà le imprese e il mercato del lavoro e che ha visto, con l’emergenza pandemica, crescere mese dopo mese l’abbandono volontario dal lavoro di milioni di occupati, spinti dalle ragioni più diverse: la ricerca di nuovi equilibri di vita, le condizioni non soddisfacenti di lavoro, la disponibilità di sussidi, mai così generosi come in questi ultimi due anni.

In Italia, tale tendenza appare al momento ancora circoscritta, ma rappresenta di certo un fenomeno da guardare con attenzione in un mercato del lavoro tradizionalmente rigido, dove la mobilità occupazionale è fortemente penalizzata dalla bassa dinamicità salariale e dalla scarsità di opportunità professionali. Un mondo che cambia in era pandemica quello del lavoro.

La ripresa – spiega la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – e la corsa di alcuni settori, in particolare l’edilizia, unita alla crescente difficoltà di reperimento di alcune figure professionali, stanno alimentando una domanda di lavoro più concorrenziale, almeno su certe posizioni, che è di stimolo ad una maggiore mobilità dell’offerta di lavoro. Ma anche la crisi e il conseguente deterioramento delle condizioni occupazionali incidono sulla propensione a dimettersi determinando, oltre alle fuoriuscite dal mercato, anche passaggi al lavoro autonomo o a quello irregolare.(AWE/LaPresse)

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