Lavoro nero e chiusure mirate: ma perché i controlli colpiscono solo gli stranieri?

Negli ultimi anni, in Italia – e in particolare in Campania – si è assistito a un fenomeno curioso ma inquietante: quando si parla di chiusure per violazioni lavorative, sembra che i bersagli preferiti siano sempre i ristoranti cinesi e giapponesi. Eppure, chiunque abbia lavorato o semplicemente vissuto nel nostro Paese sa bene che il lavoro nero è una piaga trasversale che colpisce quasi tutti i settori della ristorazione.

Nei bar e nei ristoranti italiani, soprattutto quelli a conduzione familiare o nelle piccole trattorie, è praticamente la norma trovare camerieri e baristi senza contratto, spesso studenti universitari o giovani alla ricerca di qualche soldo extra. Le paghe? Circa 40 euro a serata, spesso senza contributi, senza tutele e senza garanzie. Eppure, questi locali difficilmente finiscono sotto i riflettori delle autorità.

Non è un segreto che il lavoro nero sia radicato nella cultura lavorativa italiana, un sistema che si regge su una tacita complicità tra datori di lavoro e dipendenti, che spesso accettano le condizioni per necessità. Eppure, nonostante questa realtà sia sotto gli occhi di tutti, le chiusure per violazioni lavorative sembrano colpire quasi esclusivamente i ristoranti etnici, in particolare quelli di sushi.

Perché i ristoranti cinesi e giapponesi sono i più colpiti?

Viene spontaneo chiedersi: perché proprio loro? Le risposte possono essere molteplici: essendo attività gestite da imprenditori stranieri, questi ristoranti spesso non hanno la stessa rete di contatti e protezioni di cui godono i ristoratori italiani. È più semplice colpire chi non può difendersi con le stesse armi. C’è ancora una diffusa percezione, alimentata da preconcetti, che i ristoranti asiatici siano meno “affidabili” o che dietro la loro gestione ci siano attività poco chiare. Questo porta a controlli più frequenti rispetto ai locali italiani. Ogni chiusura di un ristorante etnico fa notizia, alimentando una narrazione che li dipinge come luoghi di sfruttamento o illegalità. Nel frattempo, gli innumerevoli locali italiani che operano con le stesse dinamiche restano nell’ombra.

Al di là delle chiusure mirate, la vera emergenza resta il lavoro nero diffuso nel settore della ristorazione, che colpisce principalmente i giovani. In un Paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è già alto, molti ragazzi si vedono costretti ad accettare condizioni precarie, senza alcuna sicurezza per il futuro.

L’assenza di controlli seri e sistematici sui ristoratori italiani dimostra che il problema non è solo il rispetto delle regole, ma la volontà di applicarle in modo selettivo. Fino a quando chiudere un occhio sul lavoro nero nei locali italiani sarà considerato normale, e al contrario si colpiranno solo le attività etniche, sarà difficile parlare di equità e giustizia nel mondo del lavoro.

Se si vuole davvero contrastare lo sfruttamento, è necessario che le autorità smettano di concentrarsi sempre sugli stessi bersagli e inizino a guardare l’intero settore con occhio critico. Altrimenti, il messaggio che passa è chiaro: alcune illegalità sono accettabili, purché a commetterle siano gli “amici di sempre”.

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