Le idi di marzo del liberalismo

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Chi ha frequentato la scuola nel dopoguerra, ancorché navighi speditamente verso la vecchiaia, ben ricorderà il calendario romano. Prevedeva circa gli stessi mesi di quello che poi fu adottato successivamente, il “Gregoriano”. Salvo alcune piccole differenze. Tre, ad esempio, erano i giorni con un loro nome peculiare. Il primo era quello delle calende e individuava gli inizi di ogni mese. Gli altri due erano le none e le idi, mobili a seconda della durata del mese. In marzo, maggio, quintile e ottobre, le none cadevano il settimo e le idi il quindicesimo giorno mentre negli altri mesi, cadevano rispettivamente nel quinto e nel tredicesimo giorno. Le idi più famose, quelle passate alla storia, sono senz’altro le “Idi di Marzo” del 44 a.C. ovvero il 15 marzo, giorno in cui Caio Giulio Cesare cadde per mano di gruppo di congiurati repubblicani.

Da quel giorno l’evocazione delle Idi di Marzo sta a significare un evento tragico oppure luttuoso nell’accezione corrente. Bisognerebbe quindi istituire ogni 15 di quel mese la celebrazione del pregiudizio contro il liberalismo economico, meglio conosciuto come liberismo, più volte apostrofato come idea funesta, e spregiativa, nel lessico quotidiano come “liberismo selvaggio” oppure “neo liberismo”. In buona sostanza si tratta del retaggio di un pregiudizio portato avanti nel campo politico e permeato nell’opinione pubblica, nei confronti del libero mercato di concorrenza. Inutile precisare che i maggiori detrattori siano i marxisti e gli statalisti, ovvero quelli che accollano alla programmazione ed alla gestione dei monopoli statali meriti e virtù scarsamente rilevabili, disdegnando di fiatare in faccia ai fallimenti delle gestioni statali ed alla pervasività dello Stato stesso nella vita degli individui. Buona parte dei detrattori è in mala fede perché critica il libero mercato ed invoca una presunta superiore etica dei fini perseguiti dallo Stato imprenditore in quanto questo non obbedisce alla logica dei profitti nelle proprie imprese.

Tuttavia laddove la gestione non produce profitti sono anche chiaramente ineludibili le perdite, dal momento che la governance di quelle aziende esula dall’applicazione della buona prassi imprenditoriale essendo ispirata alla gestione politica di chi in quel momento ci governa. Se lo Stato produce perdite, che distribuisce alla vasta comunità dei contribuenti sotto forma di tasse e debito pubblico, non si può considerare quella gestione come espressione di una superiorità etica dei fini. Ma c’è di più. La critica al libero mercato è basata sul falso presupposto che questo imperversi nella pratica quotidiana, che il liberismo sia, cioè, un sistema largamente usato invece di valutare che nel concreto è vero esattamente l’opposto. Insomma del poco che c’è e del tanto che manca di liberismo nella politica e nell’economia di mercato di un paese cripto-socialista, statalista ed assistenzial-clientelare qual è il nostro, se ne fa largo uso dialettico in termini mendaci e dispregiativi.

Se per i politici la menzogna sul libero mercato e sulla concorrenza ha come ricaduta pratica la gestione di enti ed ingenti risorse che alimentino il potere delle clientele e degli interessi, mal si comprende come la vulgata sui danni di un sistema che poco c’è e pochissimo opera nell’economia italiana, per lo più assistita dallo Stato, abbia pervaso sia il giornalismo che l’opinione pubblica diventando quella classica araba fenice che tutti dicono di conoscere ma che nessuno sa indicare ove sia realmente. Ora, in tale contesto, per contrastare questo male, causa di ogni nequizia e di ogni disarmonia di tipo opportunistico e speculativo, diventa fondamentale fare più leggi e più controlli in capo allo Stato, ampliandone i poteri ed il conseguente disavanzo economico! Inutile dire che la critica alla concorrenza ed al libero mercato parte dal presupposto che questi crei ingiustizia sociale e disuguaglianza, ma nessuno si prende la briga di guardare che, con questo “sistema”, l’indice di povertà assoluta nel mondo scenda sotto il 10% e che solo la produzione di ricchezza alimenta lo stato sociale e la rete di protezione socio sanitaria.

Vilfredo Pareto il più grande degli economisti italiani, nel lontano 1890 scriveva: “quando qualche storico narrerà la miseria degli anni presenti, è pregato di non darne la colpa alla libera concorrenza. Quest’ultima gli italiani non sanno neanche dove stia di casa. Potranno anche dirla malevola e malvagia, ma non si potrà dare ad essa alcuna colpa di quei mali che seguono ove la concorrenza non esiste”. Insomma a quanto pare il liberalismo ed il liberismo erano già stati traditi nel periodo post risorgimentale con l’Italia che si avviava lungo la strada dello statalismo e del debito pubblico, con il perpetrarsi di quel pregiudizio che addebita i guai conseguenti a qualcosa che non veniva praticato. In casa nostra le Idi di Marzo della concorrenza si celebrano da circa due secoli.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome