Il ruggito del leone, uno dei suoni più iconici della natura, nasconde una complessità finora sconosciuta. Contrariamente alla credenza comune che esista un’unica, monotona vocalizzazione, uno studio recente ha svelato l’esistenza di due distinti tipi di ruggito. Questa scoperta, pubblicata sulla rivista scientifica *Ecology and Evolution*, non è una semplice curiosità zoologica, ma apre scenari rivoluzionari per le strategie di conservazione di questi maestosi animali.
L’innovazione è stata possibile grazie all’impiego dell’intelligenza artificiale. Un team di ricercatori della University of Exeter ha sviluppato e addestrato un algoritmo di machine learning per analizzare le registrazioni dei versi dei leoni. I suoni emessi da questi felini sono unici come le impronte digitali umane: ogni verso permette non solo di identificare un singolo individuo, ma anche di stimare la densità e la distribuzione di un’intera popolazione.
In passato, questo compito era affidato esclusivamente all’udito di biologi esperti, un metodo lento e con un margine di errore significativo. L’intelligenza artificiale ha superato ampiamente le capacità umane, raggiungendo un’accuratezza del 95,4% nell’identificazione corretta dei singoli esemplari. Questo “orecchio bionico” consente di monitorare vaste aree in modo non invasivo, semplicemente registrando i suoni ambientali e lasciando che la macchina li analizzi.
L’analisi dettagliata ha permesso di classificare due diverse categorie di vocalizzazioni. Oltre al classico “ruggito a piena gola”, potente e prolungato, è stato identificato un “ruggito intermedio”. Quest’ultimo è una versione più breve e meno intensa, che copre una gamma di frequenze più ristretta. Sebbene la sua funzione sociale specifica non sia ancora stata del tutto chiarita, la sua esistenza arricchisce il nostro vocabolario per comprendere la comunicazione di questi predatori.
La capacità di distinguere tra i diversi tipi di verso e di attribuirli a individui specifici migliora drasticamente la precisione del monitoraggio. Gli autori dello studio sostengono che la bioacustica, ovvero l’analisi dei suoni prodotti dagli esseri viventi, debba diventare uno strumento centrale per la tutela della fauna selvatica. Tecniche come questa si sono dimostrate più efficaci e meno intrusive rispetto ai metodi tradizionali come le fototrappole, che hanno un raggio d’azione limitato, o l’analisi di tracce ed escrementi.
Il monitoraggio acustico permette di raccogliere dati 24 ore su 24, su lunghe distanze e senza disturbare gli animali nel loro habitat naturale. La ricerca dimostra come l’innovazione tecnologica, se applicata con criterio, possa diventare un’alleata fondamentale per la biologia della conservazione. Per proteggere efficacemente la natura e le sue creature, dobbiamo prima imparare ad ascoltarla con maggiore attenzione e con strumenti più sofisticati.





















