TORINO – A un anno dall’esplosione che ha devastato il porto di Beirut, causando la morte di 214 persone e il ferimento di 6mila, la capitale libanese fatica ancora a riprendersi, complici la crisi economica e la pandemia da Covid-19. A causare la deflagrazione furono 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio (composto utilizzato come fertilizzante, nonché potentissimo agente esplosivo) stoccate in un deposito del porto senza precauzioni. Circa 300mila le abitazioni andate distrutte, insieme ad attività commerciali, edifici, interi quartieri e vite.
L’indagine avviata dalle autorità libanesi è in stallo e deve ancora rispondere a molte domande. Quel che è certo è che il nitrato di ammonio era conservato in modo improprio nel porto dal 2014 e vari funzionari di alto livello ne erano a conoscenza. Il 10 dicembre 2020 Fadi Sawan, primo giudice a indagare su quanto successo, ha accusato di ‘negligenza’ tre ex ministri e il premier uscente Hassan Diab. A febbraio Sawan è stato rimosso e sostituito da Tarek Bitar, impegnato in una battaglia per la rimozione dell’immunità parlamentare di tre funzionari, parte del precedente esecutivo. Parallelamente le famiglie delle vittime hanno provato a farsi sentire tenendo proteste fuori dal Parlamento o dalle abitazioni di membri del governo.
Secondo il nuovo rapporto di Human Rights Watch (Hrw) ‘Ci hanno ucciso dall’interno’, gli alti funzionari libanesi erano a conoscenza dei rischi comportati dallo stoccaggio del nitrato nello scalo portuale ma non agirono per proteggere la popolazione. “Le azioni e le omissioni delle autorità libanesi hanno dato vita a un irragionevole rischio per la vita”, si legge nel documento di 650 pagine dove viene specificato che, secondo il diritto internazionale, l’incapacità di uno Stato di agire per prevenire rischi prevedibili per la vita è una violazione di quello stesso diritto. Nel rapporto vengono citati il presidente Michel Aoun, l’allora primo ministro Diab, un ex capo dell’esercito libanese, alti funzionari della sicurezza e diversi ministri.
Il Libano versa in uno stato di emergenza dal 2019, a causa di una grave crisi economica, dell’instabilità politica e delle tensioni sociali, a cui si è aggiunta la pandemia. Il Paese non è più la ‘Svizzera del Medioriente’: l’aumento dell’inflazione ha causato la svalutazione dei risparmi delle persone da un giorno all’altro, molti stanno perdendo il lavoro e vivono in condizione di povertà. Metà della popolazione, riferisce Medici Senza Frontiere, vive in povertà estrema con meno di un dollaro al giorno, molte persone possono a malapena permettersi cibo e medicine. Un’indagine dell’Unicef aggiunge che 2 famiglie su 3 (68,6%) non hanno avuto accesso all’assistenza sanitaria o alle medicine dopo le esplosioni. A peggiorare le cose, 1 su 4 ha avuto almeno un membro della famiglia risultato positivo al Covid-19 dopo la deflagrazione.
LaPresse