L’odio e i dati farlocchi

Qualche anno fa i giornali regalarono un esempio pratico dell’utilità dei “numeri” in un dibattito. L’argomento era la violenza sulle donne: un’indagine statistica vedeva Napoli agli ultimi posti per casi denunciati. La lettura semplice è la seguente: a Napoli meno violenza di genere rispetto a Milano. Poi c’era l’altra lettura, quella secondo la quale Napoli è una città in cui le donne denunciano di meno. E con quella ci aprivano invece dei giornali notoriamente non inclini a elogiare la città. Qual è la chiave di lettura giusta tra le due? Nessuna: semplicemente i dati vengono utilizzati per avvalorare un preconcetto da ambo i lati. Il numero ha il solo valore di dare forza a un’opinione, che sia utile all’obiettivo (politico, comunicativo, economico) da perseguire o semplicemente per confermare ciò che pensiamo, per un principio già noto che è quello del “confirmation bias”. Parliamo di quel meccanismo psicologico che spinge la persona a muoversi sulla base di convinzioni già acquisite. In pratica, siamo più orientati ad accettare ciò in cui crediamo rispetto a ciò che metterebbe in discussione le nostre idee. Torniamo ai numeri: quando qualcuno parla di un’indagine statistica, soprattutto quando i dati arrivano dal panorama digitale, dovremmo esercitarci a non lasciare che la loro interpretazione metta in secondo piano il nostro esercizio decisionale. Esistono dati assoluti, sia chiaro: se contiamo che a Napoli sono state uccise 101 persone e a Milano 100 da inizio anno, è un fatto che a Napoli si ammazzi più che a Milano. Esiste poi l’interpretazione degli stessi, ed è quello il momento in cui dobbiamo stare attenti e assumere un atteggiamento critico. La cronaca, però, negli ultimi giorni ci ha consegnato un terzo caso: ai dati assoluti e all’interpretazione degli stessi si aggiungono i dati inventati. Che rischiano di creare dal nulla uno scenario non reale. Si veda Liliana Segre, senatrice a vita dal 2018, che dopo essere sopravvissuta all’orrore di Auschwitz alla veneranda età di 89 anni si ritrova a vivere sotto scorta. Tra i motivi della scelta c’è (anche) un articolo pubblicato da un noto quotidiano nazionale che stimava in “200 al giorno” gli insulti antisemiti nei confronti della Segre che viaggiano online. Ma i dati in questione sarebbero inventati: i “200 insulti” (o meglio, 197) sono dilazionati nell’arco di un anno, e quell’anno è il 2018. La ricerca porta la firma dell’Osservatorio Antisemitismo della Fondazione Cdec (Centro Documentazione Ebraica Contemporanea) e non riguarda strettamente il web. Nicolò Zuliani (su Termometro Politico) ha portato alla luce la vicenda per fornire una lucida analisi di come – tra l’altro – “discutibili valutazioni” del genere alimentino l’odio digitale anziché arginarlo; anche la sua ricerca però è stata strumentalizzata, in un dibattito che trova motivo d’esistere solo nell’eterna e mai placata contrapposizione italica tra guelfi e ghibellini. Spostando il focus si perdono di vista due concetti cardine. Il primo è che, anziché stigmatizzare fermamente frasi e comportamenti antisemiti, diamo loro addirittura notabilità da dibattito sociale. Il secondo è che ancora oggi dimostriamo di non sapere niente degli haters online: dagli strumenti per arginarli (ad oggi siamo aggrappati alla legge detta contro il cyberbullismo) a come si acquisiscono valori numerici online, fino alla misura della reale pericolosità di questi insulti e minacce. I numeri, in questo caso, sono solo uno schiaffo in pieno viso. Alla Segre. E a noi.

P.S. Il noto quotidiano ha ribattuto confermando la bontà dei suoi numeri. Come li abbia contati, su che scala, in che numero, ad oggi che vi scrivo, non è dato sapere. Ma ciò non cambia quello che scriviamo, anzi: probabilmente lo conferma.

Enrico Parolisi, esperto di comunicazione digitale

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