Fu la mistica fascista a creare il neologismo politico dei “ludi cartacei”. Un’espressione denigratoria, volta a criticare il sistema basato sulle libertà e sul diritto dei cittadini a scegliersi i propri governanti. Una tesi che irrideva, spregiosa, l’esercizio del voto, definendo il medesimo come un inutile, ridondante, dispendioso esercizio. Si trattò di becera propaganda, utilizzata da chi usurpava il potere, occupandolo, senza la costante verifica democratica del consenso dei governati.
Gioco facile per coloro che controllando la stampa diffondevano notizie convenienti al regime totalitario. Fortunatamente la Storia ha collocato quel periodo buio e tragico della vita politica italiana nel suo giusto contesto. Con il ritorno della democrazia rappresentativa i governi hanno goduto della legittimazione del voto popolare, all’interno di un sistema di garanzie costituzionali tipiche di una Repubblica parlamentare. Lo stesso dicasi per gli enti locali a cominciare dai Comuni ove i sindaci sono espressione del voto, ben lontani dal regime dei podestà nominati (ed imposti) dall’alto. Tuttavia la democrazia, lungi dall’essere un mero esercizio formale dei diritti riconosciuti in capo ai singoli cittadini, deve potere trovare una sostanziale legittimazione che renda la medesima fruibile e concreta.
Insomma, non basta il diritto di potersi recare alle urne per connotare un sistema come democratico se poi vengono meno alcune specifiche caratteristiche. Per capirci: occorre che le garanzie siano effettive, che il voto non venga né condizionato, né manipolato dalle decisioni postume degli eletti e, soprattutto, che venga espresso dopo il naturale confronto tra le diverse opzioni programmatiche in campagna elettorale. Abbiamo già descritto, su queste stesse colonne, lo stato di degrado a cui, negli ultimi anni, la competizione elettorale è andata incontro: dalla scomparsa dei partiti politici (a tutto vantaggio di liste civiche e candidature “fai da te”) fino alla all’apparizione di quella assurda forma di qualunquismo che oggi si accompagna ad un modo tutto particolare di impostare la proposta da presentare agli elettori.
Tuttavia tanto non basta se sommiamo al caos ed alla disorganizzazione politica anche l’impreparazione che emerge nei gangli della burocrazia: il sistema soffre oltre che del qualunquismo, pure di uno stato di approssimazione negli atti e nelle procedure che competono alla pubblica amministrazione. Un esempio eclatante viene dalla vicenda che ha visto protagonista la prefettura di Napoli che ha diramato ben nove schemi di schede elettorali tutte prontamente rimosse per errori di composizione. Insomma, a meno di quindici giorni dalla data fissata per l’apertura dei seggi, nella città capoluogo siamo alle comiche! Dopo la vicenda della ricusazione di ben quattro liste presentate in maniera difforme oppure in ritardo sull’orario stabilito per il loro deposito, i candidati sono stati messi nelle impossibilità di potersi stampare il fac-simile della scheda che abitualmente si usa per la propaganda elettorale.
Se è vero che la burocrazia, anche ai massimi livelli, affastella errori su errori, sovviene alla mente quando ebbe a scrivere sulla stessa Ignazio Silone: “anonima ed irresponsabile, crea difficoltà per vendere benefici”. Non sappiamo quali possano essere i benefici di questo marasma amministrativo ma sappiamo certamente che non saranno individuate le responsabilità di quanti hanno creato questa paradossale situazione. In disparte il fatto che ben 750 candidati si siano visti ricusare dal Tar la lista della quale facevano parte. Emerge, da tutto questo, uno stato confusionale, una condizione che somiglia a quelle che, in genere, si registrano nella vita politica degli Stati con scarsa traduzione democratica. Eppure il nostro Paese si lamenta da anni per un continuo stato di disagio, per il mal funzionamento della burocrazia che governa la pubblica amministrazione e che a quanto pare non è stato minimamente scalfito dalle varie riforme che il Parlamento ha varato finora, per porvi rimedio.
Di provvedimenti tesi alla semplificazione delle procedure ed all’efficienza delle strutture amministrative sono piene le Gazzette Ufficiali, senza che sia mai sortito il tanto invocato decisivo cambiamento. Eppure la pubblica amministrazione rappresenta un costo sensibilmente alto per lo Stato che solo di stipendi spende circa 200 miliardi di euro ogni anno, la seconda voce di spesa dopo quella delle pensioni. Un costo ragguardevole che viene spesso dissipato da un sistema nel quale il lavoratore è retribuito per la sola giornata di presenza ed a prescindere da quel che produce o meno nel sistema nel quale è inserito. Se questa disfunzione si somma alle carenze che oggi mostra la proposta politica, non siamo molto lontani dal contesto pseudo democratico che i Fascisti indicarono col nome di “ludi cartacei”