Mafia e appalti, la Dda: “I Verazzo imprenditore del clan”

La tesi del pm Maurizio Giordano. In primo grado sono stati assolti dall’accusa di associazione: presentato ricorso in Appello

CAPUA – La sentenza di primo grado che lo scorso giugno ha assolto Francesco e Giuseppe Verazzo dall’accusa di associazione mafiosa, per il pubblico ministero Maurizio Giordano, titolare dell’inchiesta che ha portato i due imprenditori a processo, “è errata e deve essere riformata”.

Tra i motivi tracciati dal giudice del Tribunale di Napoli per dichiarare non colpevoli gli uomini d’affare c’è quello riguardante il “difetto di prova del contributo dato” dagli imputati “al clan dei Casalesi”. Spieghiamo meglio: le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia nei loro confronti sono state ritenute molto generiche, circostanza che ha determinato l’impossibilità di definire il ruolo e quale contributo avrebbero dato all’operatività del sodalizio mafioso operante su Capua. Ma il magistrato dell’Antimafia, nel presentare ricorso alla Corte d’appello, ha evidenziato che quanto sostenuto dal giudice vale, in realtà, quando è necessario definire il concorso esterno nell’associazione mafiosa, “ma non certo per il ruolo partecipativo al sodalizio” (cioè quando viene contestata l’associazione mafiosa). Il partecipe, invece, ha ricordato Giordano, è colui che “assicura uno stabile apporto fattivo, anche mediante condotte che in sé non costituiscono reato, al raggiungimento degli scopi dell’associazione mafiosa”. Nel caso in esame, il ruolo delineato in capo ai Verazzo, dice il magistrato, “è costituito dall’essere stabili referenti nel clan nelle interazioni con altri imprenditori da estorcere (o con cui colludere) e dall’essere stabili imprenditori del clan nell’infiltrazione all’interno del Comune di Capua”. Per il giudice del Tribunale di Napoli, gli elementi di prova offerti alla sua valutazione avevano peccato di genericità e di assenza di riscontri, fornendo una lettura dei fatti “scollegata fra loro”. Non concorda il pubblico ministero. E rivolgendosi ora alla Corte d’appello indica a sostegno della propria tesi le dichiarazioni rese dal pentito Nicola Panaro, che identificano i Verazzo “come imprenditori di diretta espressione di Elio Diana e soprattutto di Nicola Schiavone con cui erano soliti relazionarsi”. E sempre secondo Panaro erano stati incaricati proprio da Elio Diana e Nicola Schiavone “di fare da ‘testa di ponte’ sul territorio capuano, in particolare nei rapporti con l’amministrazione pubblica”. Il pm Giordano ha ricordato nel ricorso anche le dichiarazioni rese direttamente da Schiavone, figlio del capoclan Francesco Sandokan, che nel 2019, sbagliandosi sul fatto che Francesco e Giuseppe Verazzo fossero fratelli (sono cugini), li definì comunque come intermediari della sua fazione mafiosa di appartenenza. Nel 2018, inoltre, disse che erano “rappresentanti” sul territorio di Capua della cosca “con piena autonomia decisionale”. Nell’elenco di prove tese a puntellare la sua ricostruzione sull’ipotizzata mafiosa degli imprenditori, il pm ha inserito inoltre le dichiarazioni di Francesco Zagaria, alias Ciccio ‘e Brezza e diverse intercettazioni telefoniche.

L’attività investigativa che secondo la Dda avrebbe dimostrato l’intraneità al clan dei Verazzo è una costola dell’indagine che aveva portato a processo l’ex sindaco Carmine Antropoli e l’ex consigliere Marco Ricci con l’accusa di concorso esterno al clan: avrebbero stretto un presunto patto politico-mafioso nel 2016, in vista delle elezioni comunali, con Zagaria (che rispondeva, però, in quello stesso procedimento, di associazione mafiosa e di aver partecipato all’agguato che portò alla morte, nel 2003, Sebastiano Caterino e Umberto De Falco – fatti per cui è stato condannato). Gli ex amministratori da questa pesante contestazione sono stati assolti sia in primo che in secondo grado. Da questa inchiesta è nata un’altra (quella che Giordano vuole far approdare in Appello), tesa a far luce sulla gestione di alcuni appalti banditi dal Comune di Capua. E tale filone aveva trascinato ad un nuovo processo sempre Ricci, Antropoli e Zagaria, ma con l’aggiunta di Francesco Greco, ex capo dell’area Tecnica, accusati, a vario titolo, di turbativa d’asta e corruzione (per il giudice si trattava di traffico di influenze illecite). L’unico ad essere condannato, però, è stato Zagaria, collaboratore di giustizia, seguito dal legale Carmen Di Meo, mentre gli altri hanno incassato assoluzioni e prescrizioni (perché esclusa dal giudice l’aggravante mafiosa). E a giudizio con loro erano finiti anche i Verazzo, con l’accusa non solo di turbativa d’asta, ma pure di camorra, dalle quali, come già abbiamo detto, sono stati assolti. E ora la Dda ha presentato ricorso in Appello (la prima udienza non è stata ancora calendarizzata) ritenendo quel verdetto errato (il ricorso vale anche per Ricci, Antropoli e Greco).

Gli imputati, difesi dai legali Mauro Iodice, Vincenzo Maiello, Vincenzo Alesci, Marco Campora, Guglielmo Ventrone e Domenico Pigrini, sono da considerare innocenti fino a una eventuale sentenza di condanna irrevocabile.
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