PALERMO – “L’Italia da quel 23 maggio del 1992 è cambiata in meglio, dal dolore ne è uscita consapevole che la mafia non era più una soap opera siciliana lontana dalla vita reale. Con Capaci l’Italia e la Sicilia hanno perso innocenza e candore. Cosa nostra è diventata un’emergenza nazionale”. Lo dice il presidente della commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana Claudio Fava in un’intervista a LaPresse per il trentesimo anniversario della strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Per Fava però questo percorso di consapevolezza non è ancora concluso. “Trent’anni dopo mancano ancora pezzi di verità, sappiamo chi eseguì l’attentato, conosciamo tutto quanto riguarda la mafia e Capaci, ma quel 23 maggio non ci fu solo quella mano ad agire. Del resto sappiamo poco o nulla, frammenti che non permettono di arrivare ancora alla verità”.
Da un decennio la mafia corleonese ha smesso di sparare, in parte perché decimata dalle centinaia di arresti, in parte perché la dottrina Riina si è dimostrata un fallimento. “Mi fa più paura questa mafia silente che ha messo le mani sull’economia, che alimenta diseguaglianze, crea sacche di degrado. La parentesi corleonese è finita e Cosa nostra è tornata all’antico. Una mafia che tradizionalmente ha trattato con lo Stato, difficile da individuare, strisciante che si annida dove ci sono le risorse. Oggi più che mai il metodo Falcone di seguire i soldi è l’unica arma per contrastarla”. Claudio Fava mette in guardia dai pericoli della mafia 2.0 che non spara più se proprio non ne è costretta, che si è contornata di giovani professionisti in grado di convogliare le risorse illecite in Start-up, aziende tecnologiche, finanza pulita. Uno spaccato preoccupante secondo il presidente della commissione antimafia siciliana alla vigilia del trentennale della strage di Capaci. “Attendiamo di leggere le motivazioni della sentenza di Appello del processo trattativa Stato-mafia, ma è già chiaro che se le responsabilità penali dei singoli possono essere venute meno, non credo si arriverà al riduzionismo della ricostruzione storica. La trattativa è fuori dubbio che ci sia stata”.
Il legame fra mafia e politica non passa solo per la vicenda della trattativa. Alle prossime elezioni a Palermo si assiste al ritorno alla vita politica di personaggi condannati per mafia. “Paradossalmente il problema non sono Cuffaro e Dell’Utri, ma chi li cerca, chi ne chiede ancora i buoni uffici, la vera questione è il silenzio di questi richiedenti, mi accontenterei che la politica siciliana finisca di sospendere il giudizio morale su questi personaggi in nome di un’utilità politica. Nella campagna elettorale di Palermo non ho ancora sentito le parole “lotta alla mafia”, non ho sentito un solo candidato affrontare la questione. Come se Cosa nostra non esistesse più o non fosse più un problema”. A 20 giorni dal voto alle amministrative il presidente della commissione antimafia dell’Ars stigmatizza il coinvolgimento da parte del centrodestra di Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e Totò Cuffaro per favoreggiamento a Cosa nostra. “Premesso che Cuffaro ha pubblicamente ammesso di aver sbagliato, mentre Dell’Utri, condannato per un reato ben più grave, non l’ha mai fatto, non possiamo nascondere che se questi due politici hanno ancora voti e potere è perché i siciliani non hanno ancora espulso del tutto il cancro mafioso”.
Di Francesco Patanè