La manovra economica predisposta dal Governo italiano e risottoposta all’Unione europea se da un lato segna una inversione di tendenza rispetto alle politiche di austerità precedenti, non fa emergere un chiaro disegno per il futuro del Paese, come era nelle aspettative di quanti pensavano a importanti cambiamenti strutturali; non vi sono strategie chiare, se non quelle della quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza che risulta molto ridimensionato. Risulta invece carente il disegno per la politica industriale: sicuramente c’è il rischio che continui il rischio di declino del Paese. Per quanto riguarda la pressione fiscale, rispetto a quanto oggetto del contratto di governo, vi sono accenni timidi (flat tax) di riduzione circoscritte a particolari categorie, lasciando ai condoni eventuali occasioni di maggiore gettito.
Cosa positiva, viene riconfermato il bonus sulle ristrutturazioni e una Ires diminuita per le aziende che riinvestono utili in macchinari, ricerca e sviluppo e assunzioni stabili. Lascia perplessi il provvedimento drastico sulla limitazione dell’indicizzazione delle pensioni oltre 1.500 euro, che in questi anni, anche per i provvedimenti dei governi precedenti, hanno perso potere di acquisto. Per quanto attiene il Mezzogiorno, non vi sono indicazioni strategiche né politiche mirate di bilancio, e questo è particolarmente allarmante, tenuto conto dell’ulteriore arretramento del Sud e della forte migrazione dei giovani. Inoltre per il Mezzogiorno si profila all’orizzonte il rischio del concretizzarsi dell’autonomia finanziaria rafforzata, richiesta per il momento da tre regioni del Nord: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. In parole semplici, le regioni in questione rivendicano il cosiddetto residuo fiscale derivante dal maggiore gettito che da loro viene registrato, in barba ai principi di solidarietà nazionale e di pari diritto di cittadinanza. La manovra che per il rapporto Deficit/Pil è stata ridotta dal Governo dal 2,4 a 2,04% per effetto delle ventilate procedure di infrazione sollevate dalla Commissione europea, pur se molto articolata non risulta adeguata a sostenere la crescita, essendo basata su spese correnti sostanzialmente prive di effetti espansivi.
Manca una sostanziale spinta verso spese di investimento e si porta, in questo modo, il Paese verso una nuova probabile recessione economica. Sono state riviste al ribasso anche la crescita del Pil per il 2019, inizialmente fissata dal Governo all’1,5%, contrariamente alle stime elaborate da Bankitalia (che prevede l’1,0%), dell’Ocse (0,9%) e del Fondo monetario internazionale (0,9%). Restano ancora irrisolti per il momento i problemi della finanza pubblica territoriale. In particolare i Comuni hanno avanzato specifiche richieste per l’autonomia impositiva e per una riformulazione del patto di stabilità, tenuto conto delle difficoltà attraversate in questi ultimi anni.
Nel complesso, all’orizzonte vi sono molte nubi, molto dipenderà dai comportamenti attivi del nuovo Governo; l’andamento del Pil 2019 resta un traguardo importante da raggiungere, alla base di qualsiasi ragionamento politico con una attenzione alla semplificazione amministrativa e all’avvio concreto delle Zes. Sicuramente ci si muove sul filo del rasoio, non solo in relazione alla gestione del debito pubblico e degli spread che il mercato esprimerà in vista delle prossime scadenze previste nel 2019 per i titoli di Stato, ma anche alla lotta all’evasione e alla riduzione delle spese dell’apparato centrale e periferico dello Stato. Un’ultima questione riguarda le eventuali coperture provenienti da dismissioni immobiliari, non facili da realizzare nel breve periodo.