Un libro che racconta i fatti della strage di Nassiriyah, a 20 anni dall’attentato che causò 28 morti fra italiani e iracheni: questa l’ultima opera (“Nassiriyah – Dall’attentato alla ricerca della verità”, edito da Vallecchi) di Carmelo Burgio, generale dei carabinieri in congedo, già comandante provinciale dell’Arma a Caserta, comandante del reggimento di peacekeeping di stanza in Iraq nel 2003 e scampato per caso alla strage.
Quale esigenza l’ha spinta a scrivere questo libro?
L’attentato ha fortemente colpito il Paese, ma alla fine tutta l’attenzione si è concentrata giustamente sui caduti e non si è pensato a un aspetto importante: quello che il reggimento ha fatto dopo la tragedia. Se fossero cominciate a fioccare domande per tornare in patria, il reggimento sarebbe finito lì. Il contingente era importante per la popolazione e abbandonare lo scenario sarebbe stato anche una figuraccia internazionale. Erano carabinieri non abituati a uno scenario di guerra come quello di Nassiriyah e hanno dovuto fare ricorso a doti di coraggio, abnegazione e dedizione non indifferenti. E’ anche giusto ricostruire la vicenda processuale con le sue luci e ombre. Ultima motivazione: combattere le banalità. E ne sono state dette tante, sia da parte di chi voleva condannare tutti, sia da parte di chi non voleva condannare nessuno. Hanno parlato tante persone che non erano mai state lì, non erano addette ai lavori e non sapevano cosa stessero dicendo.
Ma ritiene che siano state diffuse delle vere e proprie fake news sulla strage di Nassiriyah?
Anche personalità autorevoli hanno auspicato la condanna di ministri, presidenti del Consiglio e capi di Stato maggiore, ma non c’era il minimo appiglio giuridico per questo. C’è stata una polemica anche sulle medaglie conferite e qui è intervenuto giustamente il ministro della Difesa. C’è la medaglia d’oro al valor militare e quella per le vittime del terrorismo e quest’ultima è stata data ai morti e ai feriti: la prima viene conferita per un atto eroico, vale a dire un gesto che non si era tenuti a compiere e che mette a repentaglio la propria vita. Se poi si pensa che chi si è offerto volontario rientri in questa categoria, allora bisogna dare la medaglia al valore a chiunque sia morto in guerra. Un atto eroico specifico non c’è stato.
Quale è la situazione delle responsabilità e dei relativi risarcimenti?
Si è partiti con i processi contro i comandanti che sono stati assolti, poi c’è stato il ricorso delle parti civili per i risarcimenti e la Cassazione, pur non essendoci state condanne penali, ha ritenuto di doverli concedere. L’unico condannato a risarcire questi danni è il comandante della brigata che era immediatamente al di sopra del comandante del reggimento di stanza a Nassiriya. Faccio una considerazione a margine: le famiglie di morti e feriti hanno subìto un dolore immane che nessuna somma di denaro guarirà, ma gli indennizzi sono stati dati. Il generale è stato condannato a risarcire i danni, ma viene spontaneo osservare che la somma risulta così elevata che alla fine le famiglie questi soldi non li avranno mai, dato che si può pignorare solo un quinto dello stipendio. E’ una sentenza eseguibile o servirà solo a pagare le parcelle degli avvocati, che sono creditori privilegiati?
E se pagasse direttamente lo Stato?
Lo Stato ha fatto il suo: alle vittime del terrorismo morte o rimaste invalide vengono riconosciuti 210mila euro una tantum, un vitalizio mensile di circa 1500 euro e un’anzianità pensionistica aumentata di 10 anni e di una certa percentuale sulla somma spettante. Inoltre, i figli delle vittime hanno giustamente diritto a un posto di lavoro.
Quale è stata la sua esperienza a Nassiriyah?
Sono un miracolato: ero arrivato il 5 novembre per prendere il comando del reggimento, l’11 sera mi sono sentito dire che la mattina dopo avrei dovuto ricevere la troupe cinematografica che stava girando il film. Dopo un po’ mi hanno chiamato da Bassora: un generale britannico voleva salutarmi. Non avevo una gran voglia di andarci e ho risposto che avevo da fare: meno male che quel generale mi ha detto di prendere l’auto e presentarmi da lui, altrimenti sarei stato nella base al momento dell’attentato. Dopo la strage sono stato interrogato dalla magistratura e ho fatto presente di aver sollevato perplessità, appena arrivato, sull’organizzazione delle difese, dubbi condivisi anche da altri ufficiali, come è emerso dal processo.
Quale problema di sicurezza c’era?
In Iraq l’azione classica era l’attacco con l’autobomba. Come si sfugge a questo tipo di attacco? Costruendo una recinzione che impedisca ai mezzi di passare vicino alla struttura. Se costruisci una barriera alta 5 metri e spessa altrettanto, puoi deviare l’onda d’urto verso l’alto, ma non era stato fatto. Inoltre, nei punti di ingresso vanno realizzate delle chicane che costringono i mezzi a rallentare e impediscono di usarli come ariete, proprio quello che hanno invece potuto fare gli attentatori. Se ci fossero stati questi percorsi, il corpo di guardia avrebbe potuto iniziare a sparare e l’autocisterna sarebbe esplosa 150-200 metri prima di arrivare alla base. I giudici hanno ritenuto che il collega avesse ripetutamente chiesto di mettere la base in condizioni di sicurezza, ma che non gli fosse stato permesso da autorità superiori.
L’esperienza in Iraq le è stata in qualche modo utile per il suo lavoro successivo contro la criminalità organizzata?
Mi è stata utile soprattutto la mia formazione nei paracadutisti. Lì si impara una regola: andare sempre all’attacco, un po’ come nel calcio. Quando sono arrivato a Caserta, forse il momento più importante della mia carriera, ho cercato di mettere in pratica questa lezione: stare sempre addosso all’avversario. Altra grande lezione: non scoraggiarsi nei momenti brutti, che ci sono in ogni indagine, come quando il boss Giuseppe Setola ci è sfuggito attraverso le fogne. In questi casi ho sempre pensato e detto ai miei “tranquilli, fino a quando non ci sparano addosso non c’è da preoccuparsi”. Così è successo il giorno dell’attentato: appena arrivato sul posto, mentre provvedevo a far chiudere le strade e a far raccogliere i cadaveri, vedevo facce smunte e sentivo recriminazioni. Allora ho detto: basta pensare al guaio che è successo, pensiamo che da domani c’è tanto da fare e dobbiamo riportare a casa i ragazzi. E quelle immagini mi sono ripassate davanti agli occhi quando ci siamo accorti che Setola era scappato: ho detto ai miei che il primo tempo lo aveva vinto lui, ma che nel secondo avremmo dovuto pareggiare e possibilmente passare in vantaggio.
Segue ancora la situazione dell’ordine pubblico in Campania?
Certo, ho seguito i fatti di Caivano e sono stato anche criticato per aver osato dire che nel mio periodo a Caserta, dopo la pubblicazione di Gomorra, gli imprenditori non si erano certo accalcati alla mia porta per denunciare le estorsioni. E questo non lo dico solo io: la pensano così l’ex procuratore di Napoli Federico Cafiero de Raho e l’attuale procuratore Nicola Gratteri. Tutti concordano sul fatto che Gomorra ha creato quasi uno spirito di emulazione e un cattivo modello per la gioventù. Sono stato attaccato come se avessi commesso un reato di lesa maestà, mentre avevo solo detto che per me quel libro non ha spostato l’ago della bilancia da nessuna parte. Quando ho sentito certi discorsi su Caivano ho detto che lo Stato deve fare le operazioni di polizia, poi altre strutture come scuola, Chiesa, famiglie, devono dare altre garanzie. La camorra non è un fenomeno criminale, ma sociale e non si batte solo con i carabinieri e con il giudice. Sicuramente la Campania, come la Sicilia, non è più quella di qualche anno fa: non c’è più il latitante che gira in città, vive in una villa e ha il fratello o il cugino che fa il sindaco. Purtroppo, per cambiare la società ci vogliono tre generazioni. Così i giovani crescono in un ambiente sano e capiscono che il delitto non paga e che è meglio lavorare e crescere.
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