NAPOLI – Se sui fratelli Oscar e Salvatore Esposito gli inquirenti della Dda di Milano hanno acceso i riflettori è perché, in alcune occasioni, si sarebbero avvalsi delle società degli Aloisio e di quelle dei Giardino per l’esecuzione di lavori di armamento e manutenzione alla rete ferroviaria. Una scelta imprenditoriale che ha spinto il pm Bruna Albertini a ritenere i due, originari di San Felice a Cancello e titolari di Globalfer e Consorzio armatori ferroviari, organici al ipotizzata associazione a delinquere che proprio gli Aloisio avrebbero diretto. Si tratta di una cricca, sostiene l’accusa, che sfruttando la vicinanza di alcuni suoi sodali alla ‘ndrangheta, si è insinuata nella gestione dei lavori banditi da Rfi (ritenuta parte lesa nella vicenda) attivando un vero e proprio monopolio: attraverso un sistema di subappalti mascherati, afferma la Procura distrettuale, e grazie alla presunta compiacenza di colossi imprenditoriali, è riuscita a mettere le mani sui cantieri di mezza Italia chiamati a manutenere i binari.
Tra intercettazioni, pedinamenti e riscontri documentali, i finanzieri, che hanno condotto l’inchiesta, ritengono che la manodopera fornita dagli Aloisio sarebbe stata costretta a lavorare in condizioni di sfruttamento. A tutto questo le fiamme gialle hanno aggiunto ipotizzati reati tributari commessi dagli uomini d’affare considerati intranei al gruppo criminale che avrebbero fatto guadagnare loro diversi milioni di euro. Come? Con false fatturazioni, bancarotte, compensazioni di debiti erariali e contributi previdenziali con falsi crediti Iva, riciclaggio e intestazione fittizia. Un giro di soldi, stando a quanto accertato dai Nuclei di polizia economico finanziaria di Varese e Milano, che in parte sarebbe finito nelle casse della ‘ndrina facente capo alla ‘locale’ di Isola di Capo Rizzuto. Per quale ragione? Il denaro sarebbe stato usato per contribuire al mantenimento di detenuti e dei loro familiari.
Tra intercettazioni, pedinamenti e riscontri documentali, i finanzieri, che hanno condotto l’inchiesta, ritengono che la manodopera fornita dagli Aloisio sarebbe stata costretta a lavorare in condizioni di sfruttamento. A tutto questo le fiamme gialle hanno aggiunto ipotizzati reati tributari commessi dagli uomini d’affare considerati intranei al gruppo criminale che avrebbero fatto guadagnare loro diversi milioni di euro. Come? Con false fatturazioni, bancarotte, compensazioni di debiti erariali e contributi previdenziali con falsi crediti Iva, riciclaggio e intestazione fittizia. Un giro di soldi, stando a quanto accertato dai Nuclei di polizia economico finanziaria di Varese e Milano, che in parte sarebbe finito nelle casse della ‘ndrina facente capo alla ‘locale’ di Isola di Capo Rizzuto. Per quale ragione? Il denaro sarebbe stato usato per contribuire al mantenimento di detenuti e dei loro familiari.
L’indagine venerdì mattina è sfociata in 15 misure cautelari. Undici persone sono finite in carcere (Alfonso, Antonio, Francesco e Maurizio Aloisio, Francesco Catizzone, Angelo Mancuso, Gianluigi Petrocca, Nicola Pittella, Giuseppe Ranieri, Domenico Rillo e Leonardo Villirillo), altre quattro ai domiciliari (Francesco Ferraro, Antonella Petrocca, Roberto Rillo e Luigi Taverna). Il gip Barbara che ha valutato la ricostruzione della Dda, ha ritenuto che ricorrono le condizione per contestare l’aggravante mafiosa soltanto nei confronti dei fratelli Maurizio, Francesco, Alfonso e Domenico Aloisio.
Dall’attività intercettiva eseguita dalle fiamme gialle, il giudice ha appurato che con i proventi delle attività illecite condotte dalle loro società, oltre, come primo scritto, a contribuire al mantenimento dei carcerati e dei loro familiari, avrebbero predisposto pure documenti falsi per far ottenere a chi era in prigione gli arresti domiciliari. A consolidare questa testi è stata ritenuta significativa la frase che l’8 giugno 2019 Alfonso dice ad Antonio Aloisio: “Noi abbiamo i nostri carcerati da mantenere”.
I finanzieri a puntellare la vicinanza degli Aloisio alla ‘ndrangheta hanno inserito nelle carte dell’inchiesta anche le loro parentele ‘pesanti’. Sono cugini di primo grado a Rosario Capicchiano e dei defunti Alfonso e Francesco, morti in agguati mafiosi e ritenuti dagli inquirenti legati alla cosca Nicoscia. Il loro zio materno, Domenico Giardino, è cognato, avendo sposato due sorelle di Vincenzo Morelli, pluripregiudicato ritenuto legato alla cosca Arena. La loro cugina Anna Rosa Giardino è coniugata con Francesco Nicoscia, figlio di Saverio Nicoscia e di Antonella Vittimberga, la cui sorella, Carmela, ha sposato Giuseppe Colacchio, nipote del boss Antonio Arena, ucciso in un agguato mafioso nel 1983.
Tornando agli Esposito, per il gip Barbara il fatto che si siano avvalsi di operai delle imprese gestite dagli Aloisio non consente di ritenere sussistenti i gravi indizi di colpevolezza nei loro confronti in relazione all’accusa di partecipazione al gruppo criminale.
Posizione diversa, invece, quella della Procura, che su 36 indagati, a 33 (Esposito inclusi) contesta il delitto di associazione per delinquere escludendo da questa contestazione solo Federico Giudici, Carmine Pizzimenti e Domenico Iannelli, altro sanfeliciano sotto inchiesta soltanto per furto.