Nonostante le 527 rassicurazioni da “dare” alla Ue nell’arco temporale del prossimo quinquennio (2022-2026), sul destino del prestito europeo per il superamento dei dislivelli territoriali del Mezzogiorno, non si registra ancora alcun dibattito su che tipo di sviluppo il Sud abbia bisogno, con quale definita regia pubblica e come tracciare il ruolo dei privati investitori.
Vi saranno progetti industriali? E di che tipo? Si prevederanno scelte territoriali orizzontali o poli di sviluppo localizzati? Ci sarà un accentramento di funzioni a livello statale o si privilegeranno gli enti locali? Quale fisionomia dovrà assumere il livello di coinvolgimento di capitali privati?
Sul primo quesito si riportano due esempi: l’Ilva di Taranto e l’Alfasud di Pomigliano D’Arco.
Il centro siderurgico pugliese parte nel 1963 e dopo appena 20 anni già va in crisi, dopo una fase di implemento dell’occupazione (oltre 31 mila addetti tra diretto e indotto). negli anni ’90 i lavoratori sono appena 15 mila in tutto (praticamente dimezzati).
Il polo automobilistico campano apre i battenti nel febbraio del 1972, appena l’anno dopo chiude con un cash flow negativo di 32 miliardi, per poi conseguire perdite nei sei anni successivi pari a 430 miliardi di lire. Gli errori addebitati riguarderanno sia la classe politica nazionale e locale, sia la casa madre, lontana dai terreni del Mezzogiorno.
I due casi di studio qui riportati dimostrano tre cose inequivocabili: carenza del progetto industriale, utilizzo della grande impresa quale fattore di sviluppo del Mezzogiorno e concentrazione verticale degli investimenti.
La letteratura prevalente in materia dice che grandi capitali pubblici geolocalizzati innalzerebbero il costo della creazione di occupazione. Un impianto culturale, quest’ultimo, che vorrebbe privilegiare alte produttività, sfruttamento del territorio e flessibilità del lavoro. Produrre molto, avere immense aree a disposizione e precarizzare i rapporti di lavoro. Di questo si tratterebbe, in pratica.
Quindi, l’Ilva e l’Alfasud vanno male per i troppi occupati, non già perché è mancato un progetto credibile, perché la politica, locale e nazionale, non ha voluto monitorare e controllare quanto accadeva, perché le scelte industriali venivano decise lontano dal Sud, perché i poli di sviluppo desertificano il restante territorio circostante. Niente di tutto questo, bastava abbassare salari e tutele e tutto si sarebbe risolto.
Continuando, non è dato sapere ancora il tipo di gestione delle opere; si ritornerà ad uno statalismo indistinto, specialmente dopo l’era Covid-19, oppure saranno devolute funzioni (e di che tipo?) a Regioni ed enti locali? Quest’ultimi, in caso di forme definite di coinvolgimento, saranno in grado di stare al passo con progettualità, tempistica e controlli, vista la completa impreparazione proprio in relazione alla crisi pandemica?
In questo 2022, in particolare, bisognerà rispettare 100 condizioni, divise tra traguardi qualitativi (milestones) e obiettivi quantitativi (targets), che la UE ha già chiesto all’Italia. Qualcuno al Sud queste condizioni le conosce, ne ha parlato e con chi? Vedremo.
Un esempio su tutti riguarda il disegno di legge sulla concorrenza. L’ipotizzato articolo 6, di fatto, permetterà la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali. Proprio quelli erogati dai Comuni: rifiuti, acqua trasporto pubblico locale. La gestione pubblica sarà l’eccezione.
Ecco per il Mezzogiorno cosa vorrà dire accettare il prestito, a confronto il MES risulterà una passeggiata.
Francamente la cosa che infastidisce di più è la completa apatia culturale e politica su questi argomenti, come se il problema non riguardasse i cittadini del Sud, come se non importasse a nessuno l’assenza istituzionale e partitica, come se non ci fosse un domani.
Forse il non voler prendere in carico queste considerazioni non merita più neppure la ricerca di interlocutori, miseramente dispersi, ma in questo caso siamo proprio a livelli di codardia.
Raffaele Carotenuto
Scrittore e meridionalista