No cover? No play

Diciamolo subito, non ho mai amato le Cover band, o le Tribute band, sia per motivi artistici, che concettuali, da sempre.

Sono ancora vive nella mia mente certe discussioni fatte negli anni novanta con alcuni addetti ai lavori e o direttori artistici, ai quali rimproveravo mancanza di coraggio nell’ affidare serate a formazioni che avevano come unico scopo quello di suonare o cantare repertori altrui.

In verità questo fenomeno ha radici antiche nel nostro paese, sin dagli anni ’60 si è cominciato a diffondere la moda di adattare al gusto italico brani di provenienza anglosassone, molte band in ambito rock’n’roll e beat, presero ad adattare canzoni famose in America e in Inghilterra, modellandole con risultati alterni alla lingua e al gusto locale.

Tra le cover più famose realizzate in Italia, mi vengono in mente: “Stand by Me” di Ben E. King diventata “Pregherò” di Adriano Celentano nel 1962, “Satisfaction” dei Rolling Stones, che divenne “Soddisfazione” dei The Primitives nel 1966,“California Dreamin’” dei The Mamas & the Papas, che si affermò come “Sognando la California” dei Dik Dik sempre nel 1966, “Eleanor Rigby” dei Beatles, rifatta da Fausto Leali 1967.

Negli anni ’70, il fenomeno delle cover si è ulteriormente sviluppato

Le band italiane non solo copiavano i brani stranieri, ma iniziavano anche a sperimentare con nuovi arrangiamenti e stili. Questo decennio ha visto la nascita di cover band che reinterpretavano brani di artisti come i Beatles, i Rolling Stones e altri grandi nomi del rock internazionale.

Tra le meglio riuscite “Tutta mia la città” dell’Equipe 84 che nel 1970 realizzarono una vera e propria hit in italiano di “Blackberry Way” dei The Move. Durante gli anni ’80 e ’90, le cover band sono diventate una parte integrante della scena musicale italiana. Molte band hanno iniziato a specializzarsi in generi specifici, come il pop, altre hanno fatto man bassa della musica dance in voga nei decenni precedenti.

I club sono stati letteralmente invasi da questa ricetta, facile e appetitosa, che ha contribuito a diminuire drasticamente l’offerta di repertori originali. Dagli anni 2000, le cover band italiane hanno raggiunto un nuovo livello di professionalizzazione, molte di queste band sono diventate veri e propri tributi agli artisti originali, con spettacoli che replicano fedelmente le performance e l’estetica delle band che omaggiano.

Oggi la situazione è paradossale, si contano sulla punta delle dita i club, o i piccoli spazi disposti ad ospitare musicisti, cantautori e formazioni che hanno come repertorio qualcosa di proprio.

Dove è andata la ricerca? Dove la possibilità di sperimentare nuovi repertori? Nuove strade?

Ancora adesso sono dello stesso avviso di trenta anni fa, “I migliori anni” sono quelli che ancora devono venire.

Basta nostalgia, basta ricordi, sarebbe ora che la musica e l’arte ritornassero a sperimentare ad essere libere.

Dove siamo finiti? Dove viviamo? Delle volte ho la sensazione di ritrovarmi in un enorme Karaoke, dove replicanti infiniti ripropongono senza tregua costantemente le stesse cose, un incubo.

Se il mondo della musica avesse usato negli anni passati il criterio imperante oggi, se gli artisti, i musicisti e gli addetti ai lavori avessero usato lo stesso metro dei nostri tempi, lo stesso “trucco”, probabilmente non sarebbero mai nati generi, canzoni e persino gli stessi cantanti che le cover band “saccheggiano” per fare le loro serate.

Con questo metodo solo per restare alla nostra “piccola Italia”, non sarebbero mai nati Carosone, Buscaglione, Modugno, Guccini, Lucio Dalla, giusto per fare qualche nome. No, non avrebbero potuto esprimersi, i dirigenti delle case discografiche, i direttori delle radio, i gestori dei locali, gli avrebbero consigliato di farsi una bella cover band e mettersi a cantare con il dovuto rispetto i repertori di Nilla Pizzi o di Claudio Villa.

Ma ve l’immaginate Buscaglione cantare Grazie dei fiori, o Guccini cimentarsi con la sua versione di Granada.

Ma siamo dove siamo, nel lago morto dell’era copiata e incollata, nel mondo clonato, siamo nel medio evo digitale e le cose stanno così. La musica non è più centrale nella società, la si ascolta attraverso apparecchi ridicoli, è diventata liquida, gratis, ha perso quasi tutto il suo valore.

Le giovani generazioni hanno a disposizione archivi gratuiti infiniti che neanche consultano.

La conoscenza è divenuta ancora più limitata, nel mio lavoro didattico e divulgativo, mi è capitato di incontrare adolescenti, giovani ragazzi, e persino persone della mia generazione totalmente ignari di cose che io stesso ritenevo basiche.

Così con l’esperienza e con l’età mi sono rabbonito, sono diventato più clemente, sino a rendermi conto che oggi una formazione che fa cover, o dedica tributi, svolge per certi versi, una funzione divulgativa di grande importanza. La riproposizione di certi repertori, in qualche maniera può essere foriera di stimolo verso chi ignora generi e artisti, che a una certa critica e ad un pubblico dotato di strumenti e consapevolezze diversa, potevano e possono apparire obsoleti e ripetitivi.

Nell’ ultimo decennio, tra i più gettonati, tra i più tributati, mi si passi il termine tra i più “coverati” c’è Pino Daniele.

in questi anni l’abbiamo visto interpretato ad ogni angolo, in ogni modo: povero Pino.

C’è stato un abuso del suo repertorio, sino allo sfinimento. Mi auguro un cambio di tendenza e di rotta, mi auguro di ascoltare nuovi sconosciuti in grado di raccontare qualcosa, in qualunque modo, ma di proprio.

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