CASAL DI PRINCIPE – “La pena è la privazione della libertà, tutto ciò che va oltre è ingiusto”: parole che declinano uno dei principi fondanti di ogni società civile, che mettono nero su bianco un diritto intangibile, “valido anche per il peggior carnefice”. E Alessandro D’Alessio, già pm della Dda di Napoli, che a breve andrà vestire i panni di procuratore a Castrovillari (in Calabria), ha voluto rimarcarle con forza prima di affrontare con noi il tema delle ‘scarcerazioni eccellenti’.
E’ un argomento che aveva invaso quotidiani e telegiornali durante la prima fase della pandemia, quando a Pasquale Zagaria, detenuto al 41 bis, ad aprile del 2020, gli fu permesso di tornare a casa, dalla moglie, a Pontevico, perché non poteva essere curato in carcere. Adesso, a renderlo di nuovo attuale ci hanno pensato i domiciliari, anche in questo caso per motivi di salute, ottenuti dal boss Nunzio De Falco ‘o lupo, mandante dell’omicidio di don Peppe Diana, avvenuto il 19 marzo 1994, e dell’assassinio di Mario Iovine, commesso a Cascais il 1991.
“Non essere liberi di fare ciò che vogliamo è una punizione pesantissima. Spesso provo a immaginare quanto possa essere terribile non poter vedere i propri affetti, visitare i luoghi dove si è cresciuti. Altro non può essere preteso – ha commentato D’Alessio -. E non va permesso neppure che in carcere si soffra più di quanto si sarebbe sofferto ‘fuori’ nell’affrontare una malattia”.
Ma?
Sconcerta che ci siano delle situazioni nelle quali le risposte dello Stato sono state diverse. E Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Cutolo, ad esempio, hanno avuto risposte diverse.
A loro, mafiosi di primo livello, è stata negata la possibilità di trascorrere gli ultimi giorni di vita nelle loro abitazioni.
Non entro nella vicenda tecnica, non so cosa sia successo nello specifico in quei casi. Ne faccio, però, una lettura sociale. E’ evidente che le istanze di Riina, Provenzano e Cutolo sono state gestite diversamente. Per quale ragione? Erano ‘meno malati’ di De Falco? Non voglio fare neppure del vittimismo dicendo che la camorra dei Casalesi viene considerata meno importante. Ma è legittimo chiedersi il perché siano state date risposte diverse.
Con Pasquale Zagaria andò diversamente.
E infatti dico: è mai possibile che lo Stato non riesca ancora a mettere nelle condizioni chi deve ‘pagare’, con la restrizione della libertà, di scontare la propria pena in prigione, come stabilito, in assoluta sicurezza, ricevendo le cure di cui necessita? Da troppo tempo non sento parlare di un piano di edilizia carceraria serio, che vada a risolvere questo problema, a mio avviso di assoluta gravità.
E cosa determina?
Che spesso non abbiamo le strutture idonee a tenere in cella i detenuti malati e siamo costretti a restituirli ai loro territori, con tutto il pericoloso carico simbolico che simili episodi hanno.
Proprio come è accaduto con Nunzio De Falco.
Ho letto che alla notizia del suo ritorno a casa i nipoti hanno fatto festa. Ecco… Il ritorno di persone del genere nei loro territori mi spaventa proprio per la simbologia negativa che possono rappresentare e la mafia vive di simboli, fermo restando che ogni cittadino ha il sacrosanto diritto di essere curato nel miglior modo possibile.
Dare ad un boss dei Casalesi, condannato a due ergastoli, il permesso di riabbracciare i propri cari rischia di minare parte del lavoro fatto in Terra di Lavoro per contrastare la criminalità organizzata… Tu hai provocato la morte di una persona, tu stai male e hai la possibilità di tornare a casa. Per curarti bene, per evitare di farti morire io Stato sono costretto a sottrarti dall’esecuzione delle pena. Il familiare della vittima che quell’uomo ha ucciso o fatto uccidere, ma anche il cittadino comune, come può reagire a questa situazione? Pensa che la vita del proprio caro assassinato sia meno importante di quella del carnefice? Il principio di garantire ad ogni costo la salute di una persona, di qualsiasi persona, ripeto ancora, è sacrosanto. Ma va sottratto alla pena che deve scontare solo nel caso in cui lo Stato non può davvero fare diversamente. E mi domando: io Stato mi sono messo nella condizione di poterlo evitare o cedo perché non ho fatto il massimo?
Insomma, un’altra pagina triste per la lotta alla mafia…
Il caso di De Falco però ci dà l’occasione di ricordare il sacrificio di don Peppe Diana. Lo rende di nuovo attuale. Il martirio del sacerdote ha rappresentato il primo germe di quell’unione tra Stato, inteso come organismo investigativo e repressivo, e coscienza sociale che è fondamentale per sconfiggere la mafia. Combatterla soltanto dal punto di vista giudiziario non basta. Serve una risposta sociale. E don Diana ha aiutato a darla.