CASAL DI PRINCIPE – Otto indagati per l’omicidio di Crescenzo Laiso. Per la Dda di Napoli a dare l’ordine di ‘eliminare’ il 30enne era stato Nicola Schiavone, figlio del capoclan Sandokan. Al raid, invece, avrebbero partecipato Massimo Russo, fratello di Giuseppe, alias ‘Peppe ‘o padrino’, il pentito Francesco Barbato di San Cipriano, Mario Iavarazzo di Villa Literno, Mirko Ponticelli di Castelvolturno, Nicola Della Corte di Villa di Briano, Bartolomeo Cacciapuoti e Maurizio Zammariello. Nel collegio difensivo gli avvocati Carlo De Stavola, Giovanni Cantelli e Ferdinando Letizia.
La procura distrettuale antimafia aveva chiesto al tribunale di Napoli di emettere un’ordinanza cautelare nei confronti di tutti gli inquisiti, fatta eccezione per i collaboratori di giustizia. Ma il gip nei mesi scorsi ha rigettato la richiesta.
L’Antimafia per alcune posizioni ha presentato ricorso contro la decisione del palazzo di giustizia al tribunale del Riesame che si esprimerà sul caso ad inizio febbraio. A coordinare l’indagine sul raid di morte è il pubblico ministero Simona Belluccio.
Laiso venne freddato il 20 aprile del 2010. Era alla guida di una Smart, in via Castagna (nella foto), a Villa di Briano, quando incontrò i suoi assassini. Cercò di sottrarsi al fuoco dei killer scappando ma la raffica di proiettili non gi lasciò scampo.
L’Agro aversano era attraversato dalla barbarie dei Casalesi: qualche anno prima a compiere omicidi su omicidi ci aveva pensato l’ala stragista guidata dal bidognettiano Giuseppe Setola. Placata la furia di Peppe ‘o cecato a spargere sangue in provincia ci pensò Nicola Schiavone in un periodo di forte tensione, come si è appreso negli ultimi mesi, tra la sua cosca e quella di Michele Zagaria. A marzo del 2009 vennero uccisi Antonio Salzillo, nipote di Antonio Bardellino, e Clemente Prisco: l’agguato venne consumato tra Cancello ed Arnone e Villa Literno, mentre l’auto con a bordo le due vittime transitava lungo via Santa Maria a Cubito. Nel maggio del 2009 il figlio di Sandokan diede l’ordine di eliminare Giovanni Battista Papa, Modestino Minutolo e Francesco Buonanno perché si erano resi protagonisti di uno sgarro ai Casalesi nella gestione delle estorsioni. I cadaveri di Papa e Minutolo vennero seppelliti dai killer in una fossa nei pressi della superstrada Nola-Villa Literno, poco prima dell’uscita di Casal di Principe.
Il corpo di Buonanno, invece, fu trovato nelle campagne tra Casaluce e Villa di Briano. E l’anno dopo la follia del primogenito di Sandokan travolse anche il suo affiliato: Crescenzo Laiso. E proprio a seguito quel raid, Salvatore Laiso, fratello della vittima, decise di rompere il vincolo dell’omertà ed iniziare a parlare con i magistrati: “Ho deciso di collaborare dopo l’omicidio di mio fratello Crescenzo perché capii che il clan dei Casalesi faceva schifo”. Furono le parole che da pentito rese nel processo ‘Il principe e (la scheda) ballerina’ sul progetto del centro commerciale da realizzare a Casal di Principe.
Il perché della condanna a morte che Schiavone ordinò per Crescenzo già negli anni scorsi fu spiegata alla Dda proprio dal germano: il 30enne aveva commesso errori nella gestione dei proventi delle estorsioni. “Non aveva portato a Casale i soldi del pizzo”, disse Salvatore. E per il gotha del clan era un affronto imperdonabile.
Il legale dei ‘pentiti’ per Mario Iavarazzo
CASAL DI PRINCIPE – Mario Iavarazzo ha revocato il suo legale di fiducia scegliendo di farsi difendere da Domenico Esposito, avvocato che assiste i collaboratori di giustizia. E’ il primo passo per il liternese verso un percorso di collaborazione con la procura distrettuale antimafia di Napoli.
Proprio l’avvocato Esposito sta seguendo la posizione del 44enne in relazione all’accusa di concorso nell’omicidio di Crescenzo Laiso.
La Dda aveva chiesto di arrestarlo, ma il gip ha risposto picche innescando così il ricorso dinanzi al tribunale della Libertà di Napoli: a vuoto le prime due udienze, svolte ad inizio gennaio. Il caso dovrebbe essere affrontato ora a febbraio.
Iavarazzo era finito in carcere già il 15 luglio scorso per il reato di concorrenza illecita aggravata dalla finalità mafiosa. Avvalendosi della forza di intimidazione derivata dalla sua appartenenza al clan Schiavone sarebbe riuscito a garantire ad imprese formalmente intestate a terzi, ma di fatto facenti capo proprio alla sua famiglia, attive nel settore delle affissioni di cartelloni, “quote aggiuntive di mercato della pubblicità”.
Iavarazzo risponde anche di intestazione fittizia di beni perché ha attributo la proprietà della società e degli utili a familiari e ad altre persone ‘estranee’ al suo nucleo: le società finite sotto la lente della Dda sono state la Adv Comunication e la Publione.
Iavarazzo per anni avrebbe intrattenuto rapporti per conto degli Schiavone con gli imprenditori della zona e in alcuni casi ha gestito anche la cassa della cosca conoscendo i destinatari degli stipendi garantiti dal clan.
L’avvio del percorso collaborativo, in continuità con il pentimento di Nicola Schiavone, potrebbe rappresentare l’ennesimo ‘colpo’ che lo Stato riesce a infliggere al clan dei Casalesi.