PECHINO (Rita Sparano) – Il 4 giugno è una data cruciale nella storia della lotta per la democrazia e le libertà civili. In questa data, ventinove anni fa, si metteva in atto quello è tristemente ricordato come uno dei massacri più crudeli dell’età moderna. Parliamo della strage avvenuta in piazza Tienanmen, che da palcoscenico per i diritti fondamentali di un popolo amareggiato ma speranzoso di cambiamenti, si trasformò d’improvviso nel teatro di uno dei più sanguinosi delitti di massa del Novecento.
Cosa accadde in piazza Tiennanmen
Erano in gran parte studenti universitari quelli che si ammassarono nella grande piazza di Pechino quel 4 giugno 1989. La manifestazione orchestrata vedeva l’appoggio di lavoratori, gente comune, volenterosa di alzare pacificamente la voce nei confronti di un governo repressivo e violento. Riforme, libertà, dialogo: queste le richieste dei coraggiosi manifestanti, noncuranti dei minacciosi avvertimenti dello Stato. D’improvviso, il fuoco. Carri armati e mitragliatrici spianate non esitarono a falciare centinaia, forse migliaia di giovani vite.
Ancora incerto il numero delle vittime della strage
Sono passati quasi trent’anni, eppure ancora non si sa quanti furono i cadaveri lasciati a terra in piazza Tienanmen. Sono trascorsi tre decenni e, “i fantasmi del 4 giugno ancora non possono riposare in pace“, per dirla con le parole di Lui Xiaobo, l’intellettuale zittito dalle autorità cinesi citato ieri da Mike Pompeo. Il segretario di Stato americano lancia una provocazione che però la Cina non raccoglie, perché non può farlo.
Questa maledetta data, e tutto quel che ha a che fare con i ricordi legati al massacro di piazza Tienanmen, sono un tabù. Qualcosa che ad alta voce non si può nemmeno nominare. La Cina si guarda bene dal ricordare un episodio che vuole a tutti costi spazzar via, come la polvere sotto al tappeto. Il mondo, però, non può e non vuole dimenticare. Come non possono farlo le madri ancora in vita di quei giovani uomini e giovani donne rimasti uccisi, colpevoli di aver creduto fino in fondo nella speranza di un cambiamento.