Pietro Condorelli presenterà ufficialmente il suo ultimo lavoro discografico Native Language al pubblico casertano nella sala concerti di Radio Zar Zak, negozio di strumenti musicali che si trova a Casapulla, in via Enrico Fermi 13, sabato 27 aprile. Un’icona della chitarra jazz, tra i più noti musicisti a livello nazionale, che è anche docente presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli dal 2000. In questo concerto Condorelli sarà accompagnato dagli altri componenti del Pietro Condorelli Native Language Trio, Raffaele Natale alla batteria e Antonio Napolitano al contrabbasso, per eseguire i brani dell’album appena uscito sulle piattaforme digitali e distribuito sia in cd che in vinile. Otto versioni rivisitate di storici standard jazz: I love you di Cole Porter, A flower is a lovesome thing di Billy Strayhorn, All of me di Gerald Marks e Seymour Simons, Pannonica di Thelonious Monk, Strollin’ di Horace Silver, Rhapsodic di Claude Bolling, Giraffe di Don Garcia e I can’t get started di Vernon Duke. La bellissima copertina dell’album è un’opera d’arte, Labytinth, realizzata dall’artista Salvatore Ravo. A questi si aggiunge la title track, che è invece un brano originale composto da Condorelli. Nel corso della serata a Radio Zar Zak sarà possibile gustare i vini prodotti nella tenuta di Mario Pagliaro. Il disco sarà presentato anche al pubblico napoletano il 2 maggio alle 18 nella sala Martucci del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, nell’ambito della rassegna “I giovedì del Jazz”.
E’ proprio Condorelli a parlare con Cronache di Native Language, e la chiacchierata è l’occasione per parlare della sua visione della musica, del jazz e della chitarra.
Partiamo dal titolo, “Native Language”. Perché lo hai scelto?
Non sono di madrelingua statunitense ma dopo tanti anni trascorsi nel mondo del jazz e dopo averlo ascoltato sin da bambino, oggi lo sento come il mio linguaggio principale. Ma il titolo è anche un riferimento a mia madre, Carmen, a cui dedico l’album.
Quale idea ti ha guidato nella selezione dei brani?
Nel precedente album, Visions, ho proposto brani originali e un solo standard. Qui ho voluto scegliere brani diversi, principalmente jazz originals, ma anche due famosi standard di songwriters come Cole Porter o Gerald Marks e Seymour Simons. C’è un solo brano originale. Avevo voglia di registrare al più presto, di esprimere subito ciò in cui oggi credo in campo musicale. Ho incontrato due partner che si sono adattati molto bene a questo linguaggio, il “modern mainstream”, cioè Antonio Napolitano e Raffaele Natale, che ringrazio per il fatto di essermi accanto in quest’avventura. E quindi ho preferito lavorare su brani non particolarmente complessi, anche se poi quando scrivo gli arrangiamenti per me e li adatto a un trio il risultato è sempre di una certa complessità. Ma credo che all’ascolto questo quasi non si percepisca, perché sembra tutto molto fluido. Forse a un secondo ascolto All of me o Rhapsodic rivelano le loro difficoltà di esecuzione. Ma i miei partner sono stati molto bravi ad assecondare le mie idee.
Native Language è l’unico brano originale. Cosa rappresenta per te?
È un brano dedicato a mia madre, ma significa anche altro. L’amore sconfinato per il linguaggio del jazz nelle sue varie declinazioni, ad esempio. Dal senso del blues alla libertà espressiva, dalla voglia di sviluppare la melodia all’impulso ritmico. Si sente molto l’attenzione ai dettagli sia sul piano ritmico che nel fraseggio. E anche l’amore per la tradizione jazzistica che nel corso del tempo si è ampliato. Una volta era mainstream la musica di Charlie Parker, poi anche quella di John Coltrane. Oggi anche Coltrane fa parte della tradizione così come i musicisti postcoltraniani. Oggi nella definizione di modern mainstream inseriamo anche stili musicali che derivano dal free jazz.
Cos’è oggi o cosa dovrebbe essere il jazz secondo te?
È sempre stato sinonimo di libertà, per cui oggi e domani il jazz sarà nient’altro che il divenire del jazz stesso. Voglio sperare che la deriva elettronica, la contaminazione che talvolta si è manifestata, si riveli soltanto uno degli incontri periodici, come è capitato per la fusion o per il rock jazz, generi che anch’io ho suonato. Ma spero di continuare ad ascoltare un pianoforte o un contrabbasso in trio con la batteria senza un minimo di amplificazione e di poter dire ancora che quello è jazz. Certo, questo tipo di musica è sempre stato considerato un luogo di fusione e di inclusione di etnie e stimoli musicali da tutto il pianeta. Forse l’unica cosa davvero imprescindibile è il feeling genuino degli artisti. Finché ci sarà questo, il jazz continuerà a vivere e a parlare a tantissime persone.
Quali sono, secondo te, le caratteristiche che fanno di un chitarrista un buon chitarrista?
Prima di tutto la versatilità. Non bisogna limitarsi a studiare un solo genere ma essere in grado di suonare un po’ di tutto. E poi ovviamente bisogna eccellere in qualcosa di specifico. Una volta si faceva molta distinzione tra musicisti di musica classica, di jazz o di rock. Oggi questi confini sono stati letteralmente abbattuti. Ci sono tanti bravissimi musicisti in grado di suonare generi molto diversi. E come sempre nascono virtuosi che creano musica incredibile. Sicuramente è importante avere un buon orecchio. Se ce l’hai, il grosso del lavoro è fatto. Poi ci vuole senso ritmico e tocco musicale. Sono qualità che, unite, danno vita al suono di un musicista, alla sua idea di suono. Anche con una chitarra e un amplificatore scadenti i grandi musicisti si riconoscono subito. Dopo 5 minuti capisci che stai ascoltando un grande artista. Certo, con strumenti più validi il risultato sarebbe un altro, ma la qualità del messaggio musicale è lo stesso, perché un buon chitarrista ha prima di tutto una voce propria, un tocco unico. Infine non bisogna avere limitazioni, ad esempio sul piano della conoscenza dell’armonia o dei voicings. In effetti i musicisti più forti sono quelli che non hanno problemi di questo tipo.
Il 2 maggio suonerai al “San Pietro a Majella”. Che sensazione provi a esibirti in quel luogo a te così familiare?
Per me è un vero onore. Sono orgoglioso di far parte di uno staff di docenti straordinari come quello del conservatorio di Napoli. Vivere quell’istituzione dall’interno è qualcosa di magico. La struttura stessa ha in sé tante storie che si intrecciano. È una potenza incredibile, che dà un’energia indescrivibile. Una volta, prima di diventare un docente del San Pietro a Majella, dopo aver insegnato in altri conservatori, andai lì a fare delle prove con il mio predecessore, Bruno Tommaso. Stare in quelle stanze era un piacere enorme, mi sentivo davvero a mio agio. Mi capitò la stessa cosa con Roberto De Simone. Ora sono lì da quasi 25 anni e la cosa mi riempie di orgoglio. Tra gli studenti ce ne sono alcuni davvero eccezionali. Tutti quelli che seguono i corsi sono molto bravi. Ed è un piacere tirare su nuovi artisti.
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