Sandokan parla in aula e rievoca Bardellino: “Dopo gli omicidi andammo in Brasile”

Schiavone ai giudici: “Se non mi volete pentito, racconterò lo stesso tutta la mia storia criminale”. Ma si teme l’ennesimo bluff

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CASAL DI PRINCIPE – La confessione non gli è valsa alcuno sconto di pena: l’ergastolo aveva incassato in primo grado e l’ergastolo gli è stato confermato in Appello. Parliamo di Francesco Schiavone Sandokan, capoclan dei Casalesi.

Lo scorso 21 maggio, in videocollegamento con l’aula di giustizia partenopea, presieduta da Silvana Gentile, il boss volle rendere dichiarazioni spontanee. E nel farlo ammise di aver partecipato all’assassinio per il quale stava affrontando il processo (l’ennesimo): l’uccisione (datata 1983) di Luigi Cantiello, Nicola e Luigi Diana.

Schiavone ripercorse il movente, spiegò come fu eseguito quel triplice delitto, ma sostenne che uno dei testimoni chiave dell’indagine, Giuseppe Pagano, collaboratore di giustizia e suo coimputato, aveva detto il falso assumendosi una responsabilità che, invece, non aveva.

Parole, ripetiamo, che non hanno spinto la Corte a riconoscergli alcun alleggerimento della pena. Parole che però, al di là del processo in cui sono state pronunciate, inevitabilmente hanno un peso che non va trascurato. Per quale ragione? Le ha proferite per assumersi in modo esplicito la responsabilità di un assassinio (cosa non usuale). E hanno rappresentato anche il suo primo intervento in aula dopo il fallimento del percorso di collaborazione con la giustizia.

Gaetano Badalamenti

Altro aspetto che rende meritevole di attenzione l’intervento di Sandokan è il fatto che, nel parlare, tocca – anche se solo di striscio – una storia tornata ormai da oltre un anno ad occupare le pagine dei giornali. Quale? Quella di Antonio Bardellino. Dopo aver raccontato come – a suo dire – si concretizzò l’assassinio dei Diana e di Cantiello, Schiavone ha riferito che la sera stessa dell’azione omicidiaria, insieme agli altri componenti del commando, raggiunse Ponte Chiasso, dove c’era la casa del fratello di Vincenzo De Falco ‘o fuggiasco. E da lì, poco dopo, con tale ‘Marione’, andarono tutti in Brasile, dove ad attenderli c’era “Bardellino per altre cose di Buscetta e di Badalamenti (esponenti di Cosa nostra, ndr)”. “Queste, però – conclude – sono altre cose”.

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Informazioni lasciate cadere in aula, che appaiono innocue, ma che dimostrano inevitabilmente il suo profondo patrimonio conoscitivo circa una vicenda che non ha richiamato solo, di recente, l’attenzione della stampa italiana e brasiliana, ma soprattutto quella dell’Antimafia.

Nell’inchiesta coordinata dal pm Vincenzo Ranieri – che punta a tracciare un nuovo legame criminale tra alcuni dei Bardellino ora presenti a Formia ed esponenti della cosca Schiavone – si fa infatti riferimento a elementi che mettono in discussione l’uccisione di Antonio Bardellino così come ricostruita nella sentenza Spartacus (l’assassinio, datato 1988, a Búzios per mano di Mario Iovine su mandato proprio di Sandokan).

In quel “queste sono altre cose” pronunciato da Schiavone c’è, probabilmente, tutto il suo sapere mafioso, fatto di misteri e intrecci politici e imprenditoriali. E riuscire a mettere le mani su quel sapere (condizionato – logicamente – da una permanenze al 41 bis che dura da circa 27 anni), significherebbe avere nuovo materiale per far luce su aspetti che, seppur già indagati e affrontati nei processi, lasciano ancora tante ombre.

Accantonando la vicenda Bardellino e tornando al solo fatto che Schiavone abbia confessato un delitto, è sicuramente un dato di rilievo: chi ha fede mafiosa non parla con lo Stato, resta vincolato al principio di omertà. Sandokan l’aveva rotto nel marzo dell’anno scorso e lo ha ribadito – anche se con linguaggio a tratti confuso – un mese fa alla Corte d’assise d’appello di Napoli: “Stavo facendo il collaboratore”. Ha sostenuto di essere stato interrogato diciannove volte: “Poi, tutto all’improvviso, mi hanno messo di nuovo al 41 bis. Il perché? Non lo so. Non l’ho capito. Io vorrei continuare a fare il collaboratore, oppure, se no… io chiedo, se non mi vogliono come collaboratore, di raccontare tutta la mia vita criminale. La giustizia italiana me lo deve consentire, perché è un diritto mio. Tutto quello che ho fatto io lo voglio dire. Non mi vogliono? Voglio dire lo stesso le cose pure senza collaborare. […] Se non mi vogliono come collaboratore – ha ripetuto – io voglio fare dichiarazioni spontanee di tutto quello che ho fatto”.

La Procura di Napoli, ora guidata da Nicola Gratteri, se ha fermato quell’iter intrapreso a marzo 2024 da Sandokan è perché – a quanto ci risulta – non era e non è convinta della genuinità delle dichiarazioni rese. Avrebbe dato informazioni già note, alcune impossibile da dimostrare. E svariati temi di interesse alla Dda non sarebbero stati toccati dal boss (e questo dimostrerebbe un atteggiamento reticente, che non può coincidere con un solido percorso di collaborazione).

L’intervento in videocollegamento del mafioso riapre questo discorso? Teoricamente potrebbe. Ma il dubbio che si tratti solo di una strategia, un tentativo di fornire dati parziali per ottenere benefici detentivi, è forte. E soprattutto c’è – crediamo – il timore che, come da mafioso abbia avuto un ruolo da capo, da leader, da ‘quello che dà le carte’, questa stessa indole criminale la trasli pure nella veste di pentito. Per tornare a essere protagonista, a dettare la linea, a incidere da dietro le sbarre, mentre la sua cosca è ormai in declino. Ma la Procura di Napoli ha capacità ed esperienza tali da percepire un’intenzione del genere e stroncarla sul nascere. E forse è anche per questo che ha interrotto i rapporti con Sandokan.

Chiudendo con il processo dove il boss ha ‘parlato’, il suo coimputato, Pagano, ha incassato 10 anni di reclusione (due in meno rispetto alla condanna di primo grado). Quest’ultimo, difeso dall’avvocato Domenico Esposito, e Schiavone, rappresentato dal legale Rosa Esposito, sono stati anche condannati a risarcire i familiari delle vittime, costituitisi parte civile con l’avvocato Giovanni Zara.

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