Sanità, gli errori di sempre

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

Sarà bene iniziare questo articolo con un enunciato, un monito che i soliti noti del ministero della Salute e quelli del Mef (Ministero Economia e Finanze), continuano volutamente ad ignorare: la pubblicità di un servizio non deve essere confusa con la gestione statale del medesimo. Un servizio, infatti, è pubblico allorquando è accessibile a tutti e gratuito per coloro i quali ne hanno diritto. Un concetto, quest’ultimo, di lapalissiana evidenza, mistificato ad arte e trasformato nell’equazione che pubblico significhi, automaticamente, “statale”. Da questa grande inesattezza che soprattutto le sinistre (ma a quanto pare anche la destra) hanno inteso assecondare, nasce il grande (e perpetuo) imbroglio della cosiddetta sanità pubblica italiana. Ora, sulla base di questa mistificazione terminologica che è figlia di quella ideologica, da mezzo secolo si propongono (e si attuano) riforme che ripetono sistematicamente gli stessi errori in nome di una presunta superiorità etica di cui lo Stato sarebbe dotato, dal momento che l’esercizio del servizio pubblico non prevederebbe il vile utile d’impresa. Insomma, per dirla con altre parole: laddove manca l’utile, ecco fiorire magicamente la virtù. Laddove invece l’utile d’impresa è presente ecco allora svilupparsi i turpi commerci sulla pelle dei malati. Niente di più falso e documentabile! Innanzitutto in sanità – se il servizio è statale – non esiste una superiore etica dei fini. Esiste, all’opposto, una sola necessità: dare al malato tutto ciò è utile a riportarlo in un buono stato di salute a costi sostenibili. Chi pretende di gestire in termini di monopolio la sanità, altro non fa che cancellare ogni libera scelta da parte del paziente del medico o del nosocomio presso i quali sceglie di curarsi, avviandolo forzosamente verso le strutture statali per stato di necessità. Peraltro il monopolio esime chiunque (centri, cliniche, aziende e plessi ospedalieri) dal rispettare i criteri di concorrenza ed efficienza, delegittimando tutti coloro i quali eccellono nel servizio. Con questo stato di cose viene premiato chi preferisce vivacchiare tranquillo nelle proprie nicchie di comodità. Parliamoci chiaro: la competizione non garba allo Stato né ai suoi dipendenti i quali amano vedersi assicurato il malato dal sistema stesso, senza meritarselo su base fiduciaria; costoro se ne fregano di essere protagonisti in strutture efficienti dove magari potrebbero essere erogate cure più efficaci! Questi “operatori sanitari” sono soliti progredire per anzianità o, peggio ancora, per “raccomandazioni”; più in generale per le ricadute che il monopolio aziendale garantisce al potere politico. Sono questi fatti noti e verificati nei bilanci fallimentari di quelle che vengono eufemisticamente chiamate “aziende sanitarie” ma che di procedure “aziendali”, del rapporto tra costi e benefici, di efficienza ed efficacia gestionale, mostrano di non avere praticamente traccia. Fuor di metafora: la sanità è un gigantesco carrozzone ove le clientele e gli interessi sguazzano. Stiamo, infatti, parlando della terza voce di spesa del bilancio statale che assorbe circa centotrenta milioni di euro all’anno e che impiega un esercito di addetti ai lavori dei quali circa il quaranta percento è formato da personale non sanitario. Pensate: si calcola che circa il 10 per cento del fondo nazionale destinato alla sanità venga consumato dalla burocrazia. Una vera e propria emorragia che parte dal centro e arriva alla periferia delle Regioni e, da queste, alle aziende sanitarie locali ed a quelle ospedaliere (sia quelle territoriali, sia quelle speciali dette Aorn-Aziende ospedaliere di rilevanza nazionale). Al carrozzone è agganciato anche il vagone dei policlinici universitari che assorbono, da soli, fondi sia dal Miur (Università), sia dal ministero della Salute. Ora, ciascuna Regione si organizza come meglio crede ed accolla allo Stato i propri disavanzi di bilancio. Ebbene, in questo bailamme, il fondo sanitario nazionale (Fsn) cui accennavano prima, viene ripartito per quota procapite, senza tenere in alcun modo conto della differenza di reddito che pure esiste tra le varie realtà territoriali del Belpaese. Per capirci: un calabrese può disporre di circa 150 euro per pagarsi le prestazioni extra Lea (livelli essenziali di assistenza) contro i circa mille euro di cui, invece, può beneficiare un lombardo. Un sistema assurdo, che predilige le regioni più ricche (quelle del Nord ovviamente) con la migrazione sanitaria che vale qualche decina di milioni di euro all’anno, verso le strutture del nord est italiano. Ulteriore elemento di dibattito? Eccovi serviti: le strutture accreditate a gestione privata si pagano a tariffa. Quelle statali… a pié di lista, ossia quel che costano a prescindere fino a triplicare i costi delle analoghe prestazioni eseguite dal privato accreditato. Eppure le liste di attesa sono lunghissime! Al Sud in particolare, dove, per ironia della sorte, si contano numerose strutture pubbliche del tutto prive dei requisiti di accreditamento (per erogare le prestazioni) o, peggio ancora, sprovviste finanche dell’autorizzazione sanitaria stessa per esercitare! Vi rendete conto? E cosa si sono inventati in questo paradossale andazzo? Un nuovo e più mirabolante carrozzone detto “case della salute” che nei piani dei “proponenti”, dovrebbero servire – udite, udite – ad accorciare le liste d’attesa e migliorare la medicina territoriale. Soldi attinti dal Pnrr e spesi a piacimento. Lo ha appena annunciato il ministro Schillaci in perfetta continuità con i suoi predecessori. Che dire? Governi di destra e di sinistra accomunati dalle menzogne, dallo spreco di risorse e sperequazione verso i Cittadini a seconda di dove si curano. Insomma soliti errori di sempre, che spesso paghiamo con la nostra vita.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome