La tutela della salute e la gratuità delle cure è uno dei cardini di quello che viene comunemente detto “welfare state”, ossia l’insieme delle politiche che lo Stato fornisce ai propri cittadini, in forma di assistenza, assicurazione e protezione. La nostra Carta Costituzionale all’art.32 così recita: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Un concetto, o meglio una garanzia di aiuto che viene quindi riservato a chi che non ha i mezzi economici per provvedere alla propria salute. Con la riforma del Sistema Sanitario Nazionale (legge n. 833 del 1978), tali garanzie e tutele sono state allargate in quanto riferite anche alla prevenzione degli stati patologici ed al mantenimento di una condizione psicofisica che non fosse turbata da fattori esterni, a prescindere dalle spese a carico del SSN ed indipendentemente dal reddito. La cosa ha comportato, negli anni, un aumento consistente della spesa statale. Quest’ultima infatti si è decuplicata, sia per l’incremento del novero degli interventi sanitari pubblici, sia per lo spreco e lo sperpero del pubblico denaro derivante dai soliti “guasti” insiti nella gestione statale, che opera in regime di prevalente monopolio, senza alcuna parametrazione dell’efficienza e dei costi. Insomma: è sempre la stessa storia. Ove mette le mani il pubblico, ove viene abolito ogni criterio aziendale, ecco che si cancellano merito e competizione affidandosi alla “rendita politica” del sistema. I guai discendono , dalla disorganizzazione, le carriere pilotate dalle manfrine clientelari, la politicizzazione dei concorsi, l’imboscamento dei protetti, ed hanno portato il sistema sul punto di collassare economicamente. Risultato: liste d’attesa bibliche, personale non retribuito secondo la produttività (si intende quella misurata da enti terzi non dalle consorterie sindacali interne alle strutture sanitarie), assenza di bilanci certificati hanno fatto delle aziende sanitarie locali (comprese quelle ospedaliere e universitarie), un grande carrozzone che ha assorbito oltre 125 miliardi di euro all’anno (terza voce di spesa dello Stato!!). A peggiorare le cose ecco arrivare, con modifica costituzionale del titolo V, il maldestro e demagogico decentramento dell’organizzazione e gestione della sanità alle Regioni. Un fatto, questo, che ha creato ulteriori centri di costo ed un meccanismo clientelare che non ha trovato rimedi. A tale caravanserraglio si è aggiunto il voler “fare parti eguali tra diseguali” nel riparto del fondo sanitario regionale, gestito dalla conferenza Stato-Regioni ossia da queste ultime che si sono inventate, ogni anno, criteri di riparto a proprio uso e consumo. Per capirci, il fondo viene diviso sia in base alla spesa storica delle Regioni (e quindi a vantaggio di quelle storicamente meglio organizzate) sia per indici di “peso”, riferiti a determinate condizioni socio sanitarie. Un variegato catalogo, quest’ultimo, che tiene conto di numerosi fattori come il numero di abitanti, l’età della popolazione, l’indice della mortalità e della morbilità, ossia della presenza di determinate condizioni patologiche esistenti in determinate aree del Belpaese. Per la serie: chi più ne ha più ne metta, pur di accaparrarsi la maggiore fetta della torta. Peccato che manchi un indice relativo alla ricchezza prodotta in ciascuna regione!! Ne consegue che un calabrese possa spendere di tasca propria 450 euro tra ticket e spesa privata ed un cittadino della Lombardia circa il doppio e quindi può accedere alle cure con più facilità rispetto a quelle non previste come fornite dallo Stato, oppure lungamente attese. Il sistema quindi induce alle migrazioni sanitarie e le Regioni più povere sono costrette a pagare a quelle più ricche le cure erogate ai propri cittadini. Niente compensa questo stato di cose e la barca del Nord va a gonfie vele con i soldi del Sud. Ma non basta. Una recente tabella di ripartizione del fondo ci informa che la Campania è l’ultima regione in materia di finanziamento pro capite, con 2.348 euro di spesa per cittadino. Di questi ben 400 euro sono di spesa per prestazioni private-private (non erogate, cioè, né dal pubblico né dai centri privati accreditati) il che vuol dire che dalle tasche dei campani sono usciti circa 250 milioni di euro, in un anno, per integrare le cure fornire dal servizio sanitario regionale. Contrariamente a quanto aveva solennemente promesso il governatore Vincenzo De Luca, nonché assessore ad interim alla Sanità “mai più ultimi”, non ci siamo mossi di un millimetro dopo ben otto anni di gestione!! Ovviamente le consorterie sindacali sparano sul privato accreditato perché profittevole ( ma è lecito guadagno in cambio di prestazioni ) ancorché la gestione regionale pubblica assorba l’85% degli oltre 12 miliardi di fondo assegnato. Cercare cause e colpevoli sarebbe improbo ed anche ingiusto, il colpevole è uno solo: quello Stato che vuole contrabbandare la pubblicità del servizio sanitario con il monopolio della gestione sanitaria ed i suoi sperperi!!