Sostenibilità: così le aziende ingannano i consumatori

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Sostenibilità finta
Sostenibilità finta

La parola “sostenibilità” è stata svuotata del suo significato originale. Da potente strumento di cambiamento, si è trasformata in una leva di marketing ingannevole, utilizzata da un numero crescente di realtà produttive per mascherare pratiche tutt’altro che virtuose. Questo fenomeno, noto come greenwashing, rappresenta oggi uno dei maggiori ostacoli alla transizione ecologica, poiché genera confusione e rallenta l’adozione di soluzioni efficaci contro la crisi climatica.

Il meccanismo è quasi sempre lo stesso: si investono ingenti risorse per comunicare un’immagine “verde”, spesso attraverso campagne pubblicitarie patinate e packaging dall’aspetto naturale, distogliendo l’attenzione dall’impatto reale delle proprie attività. Termini vaghi come “ecologico”, “amico della natura” o “green” vengono utilizzati senza il supporto di certificazioni credibili o dati verificabili, inducendo in errore chi acquista.

Un esempio emblematico arriva dal settore della moda. Molti marchi di fast fashion hanno lanciato “collezioni consapevoli” realizzate con una piccola percentuale di materiali riciclati. Queste iniziative, tuttavia, servono principalmente a ripulire l’immagine del brand, mentre il modello di business principale resta fondato sulla sovrapproduzione di abiti a basso costo e di breve durata, un sistema che alimenta lo sfruttamento delle risorse e l’inquinamento globale.

Lo stesso schema si è ripetuto nel comparto energetico, dove colossi del fossile hanno promosso i loro modesti investimenti nelle rinnovabili per presentarsi come attori della transizione, pur continuando a basare i loro profitti sull’estrazione e la combustione di idrocarburi. Anche il mondo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non è immune: la costruzione di enormi data center, con il loro esorbitante consumo di energia e acqua, viene spesso messa in secondo piano da annunci su piccole iniziative di compensazione ecologica.

Le conseguenze di questa disinformazione strategica sono gravi. In primo luogo, danneggia i consumatori che, animati da buone intenzioni, finiscono per finanziare involontariamente aziende poco trasparenti. In secondo luogo, penalizza le imprese che investono seriamente in processi produttivi sostenibili, le quali si trovano a competere in un mercato falsato. Infine, e soprattutto, si perde tempo prezioso, continuando a perpetuare un modello economico distruttivo sotto una maschera di finta responsabilità.

Per contrastare questa deriva, si sono rese necessarie normative più severe. L’Unione Europea ha recentemente approvato nuove direttive per vietare le asserzioni ecologiche generiche e imporre alle aziende di fornire prove concrete a sostegno delle loro dichiarazioni “verdi”. Sarà fondamentale vigilare sulla corretta applicazione di queste norme, un compito che spetterà alle autorità, alle associazioni di consumatori e al giornalismo investigativo. L’obiettivo è rendere la trasparenza un requisito non negoziabile.

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