di Raffaele Carotenuto*
Spesso le analisi sul Mezzogiorno fanno notare il difetto, per taluni endemico, di una classe dirigente mai formatasi come tale e, come immediata derivata, la sciatteria di livelli di rappresentanza che addirittura “bruciano” ogni dibattito empirico sul destino del territorio meridionale. A sopperire questa mancanza, nel corso dello storico dualismo tra Nord e Sud, vi erano gli analisti e i ricercatori sociali che posizionavano discussioni capaci di dare corpo ad una legislazione di attenzione alla sedimentazione di fenomeni sociali, economici e politici. Insomma, la questione meridionale era totalitaria e considerata centrale per le discussioni sulle scelte, la trasposizione del verbo sulla cosiddetta “terza Italia” aiutava la unitarietà, un blocco unico di decisioni, senza distinzioni né pluralità di analisi sul futuro. Questa impostazione ha ispirato l’intervento straordinario operato dalla Cassa per il Mezzogiorno, inteso come elemento comprensivo di un intero territorio, senza disgiungere aree interne e costiere, città e montagna. Tutto ciò imbarcando anche limiti e contraddizioni, privilegi e ruberie comprese, oltre ad una propensione fattiva e positiva riscontrabile nelle opere eseguite. Il verso comincia a cambiare negli anni ’80, quando si introduce la discussione sulla produzione e sui salari flessibili al Sud. Una impronta chiaramente neo-liberale sullo sviluppo immaginato per il Mezzogiorno. La flessibilizzazione salariale rappresenta la testa d’ariete per marginalizzare il meridione, con la messa in discussione innanzitutto dei contratti collettivi nazionali, temi cari principalmente a Confindustria e alla Banca d’Italia. In questa fase storica (anni ’80) il meridionalismo segna una divisione teorica tra chi propinava un Sud autopropulsivo, capace di trovare al suo interno le potenzialità per rinascere, e chi si convinceva di una integrazione dipendente dal Nord. Sale la critica verso un Mezzogiorno unitario, ovvero l’inizio della fine di un intervento pubblico che non distingueva il territorio meridionale, ma che lo trattava come un unicum, come quella eccezione necessaria per trainare l’intero paese. Gioco facile ebbe, quindi, l’esigenza di uno sviluppo capitalistico fondato sulle grandi concentrazioni industriali e sulla concezione di uno Stato non più garante della unitarietà ed omogeneità di prestazioni, interventi e servizi, tanto al Nord quanto al Sud, ma esso stesso attore economico. Uno Stato che si butta nella contesa perdendo quel ruolo di terzietà a garanzia di politiche uniformi e orizzontali su tutto il territorio nazionale. Si acuisce la distanza di tipo gerarchica tra centro e periferia, la politica industriale si concentra in aree specifiche, relegando ai margini intere fette di territorio, creando, di fatto, anche marginalità geografica e sociale. In definitiva, il Sud ha rappresentato quel laboratorio privilegiato per la sperimentazione del capitalismo italiano. Tra le due prevalse la tesi della integrazione dipendente dal Nord che, in pratica, si preoccupò di stabilire anche i rapporti di forza dominanti in Italia. Il Mezzogiorno perse qui (e non era la prima volta). Questo spiegherebbe e giustificherebbe, in larga parte, quella invasività del Nord non solo di tipo strettamente economico, ma che ha influenzato anche e soprattutto i meccanismi di riproduzione delle classi dirigenti, evidentemente egemonizzate dalla cosiddetta “prima” Italia. Insomma, un Nord che condiziona pesantemente la sfera politica e sociale, oltre che economica, del Sud, in cambio di assistenzialismo, clientele e tolleranza all’ingrasso della pubblica amministrazione di quest’ultimo. Gli anni ’90 faranno il resto. La questione meridionale perde vigore fisico ed intellettuale, la legislazione di quegli anni, a partire dalla legge 662 del 1996, introduce la programmazione negoziata: contratti d’area, patti territoriali, contratti di programma. L’esigenza del capitalismo diviene quella di creare la competitività tra territori attraverso la regolazione locale dell’economia. Dispiace che questa campagna elettorale non abbia avuto memoria di tutto questo e che abbia completamente derubricato non dico la questione meridionale, un fardello pesante per uomini “leggeri” come i politici di oggi, ma anche il solo parlare del Sud. Neanche provando a sforzarsi di tracciare, per questi, un orizzonte praticabile ed un destino “evitabile” per circa 20 milioni di persone. E mai come oggi nulla fa presagire una presa di coscienza che si riscatti e guardi avanti.
*Scrittore e meridionalista