Lo abbiamo scoperto con i vaccini, poi con il Covid e adesso con la guerra in Ucraina: l’Italia è ormai preda del relativismo etico. Quest’ultimo è una condizione esistenziale di quelle “big society” che praticano la tolleranza e coltivano il rispetto dei diritti legati alla sfera personale. E tuttavia non sempre tolleranza e libertà – che come tale richiede la coniugazione con la responsabilità – inducono un’effettiva e verificata emancipazione civica ed etica.
In soldoni: tra i diritti inalienabili ed indisponibili c’è quello all’errore, vale a dire la possibilità che il cittadino possa cadere in fallo violando le convenzioni sociali e le leggi che le regolano. Un particolare distintivo di quei regimi democratici che non erigono steccati per tenere prigionieri i governati. Insomma: “Siamo liberi perché fallibili”, usano dire i pensatori liberali, in quanto non esistono né dogmi, né catene che possano tenere avvinti gli uomini, a patto, però, che questi ultimi non infrangano il “contratto” di reciproca convivenza e le libertà altrui. In sintesi: le società aperte tollerano tutte le opinioni tranne quelle degli intolleranti. In questa ottica di pensiero, il possessore delle libertà e dei diritti può certo esercitarli come meglio gli aggrada, sempre però che la libertà del proprio pugno abbia un limite, necessariamente fissato là dove comincia l’integrità del naso altrui. Un sottile equilibrio che può essere garantito da comportamenti che rispettino la reciprocità. Se invece la libertà non si coniuga con la responsabilità, allora tutto diventa relativo e plausibile in nome di un criterio di irresponsabilità verso il consesso sociale nel quale si dovrebbe vivere in pace.
Purtroppo l’esercizio responsabile delle libertà individuali richiede un requisito che è quello della cultura civica posta alla base della libertà come limite o servitù volontaria di ciascuno. Nel Belpaese da tempo la cultura e l’educazione civica scarseggiano e la libertà diventa strumento per gli esibizionisti, i cinici e gli indifferenti. Quindi il relativismo etico si espande oltre ogni limite consentito e tratteggia un contesto civile approssimativo e irriverente. Il relativismo etico si pone al servizio degli egocentrici e degli ignoranti che pensano e agiscono come credono. Ogni opinione, anche quella formatisi per “sentito dire”, per mero trascinamento, si innalza a diritto legittimo e finisce per diventare equiparabile finanche alle verità scientifiche, quelle, cioè, verificate e accreditate da percorsi epistemologici, da studi e da conferme.
In questi anni non è stato raro imbattersi, specialmente sui social network, in tuttologi che, rappresentandosi come più fa loro comodo, si sono misurati con tutto e su tutti gli argomenti dello scibile umano. Il relativismo etico si paragona così alla presunta verità radicata e non documentata, e ogni raglio d’asino si eleva, maestosamente, verso il cielo. L’opinione pubblica si adegua a questo modo di essere e di ragionare facilmente per mera emulazione. Si auto-considera oltre i propri meriti e approda a quella sindrome chiamata “analfabetismo funzionale”.
Quest’ultimo riguarda gente che pur essendo alfabetizzata ed in possesso di un titolo di studio, spesso non riesce a comprendere ciò che legge finendo con l’elevare la propria visione del mondo e circoscrivendola a quel poco che ne conosce personalmente. Una serie di fattori, quelli appena descritti, che possono disegnare l’identikit del nuovo italiano medio, quello interpretato magistralmente da Alberto Sordi e Carlo Verdone e che, nel secondo dopoguerra, ha soppiantato i volti dei nostri avi, generazione operosa e desiderosa di migliorarsi. Uomini e donne che hanno dato ai propri figli l’opportunità di studiare e di cambiare il proprio livello sociale. Con il passare degli anni, dal neorealismo sociale narrato da Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Cesare Zavattini si è passati ad una generazione di agiati benpensanti e di piccolo borghesi, ora invece siamo alla metafora ed al paradosso degli individui travolti dall’evanescenza e dall’ignoranza presuntuosa.
I fatti di costume sono sempre testimoni dell’indole umana e delle trasformazione sociali. Ne racconto uno esemplificativo. Partecipando ad un matrimonio celebrato con rito civile, ma con tutta la mistica di quello religioso, mi sono imbattuto in una nuova figura per così dire “professionale”: quella dell’ufficiante. Un verboso celebrante che, scimmiottando il rito di santa madre Chiesa, ammoniva gli sposi sulla sacralità (sic!) del vincolo. Fino a giungere al pezzo forte cioè al…”rito della sabbia” per invocare l’indissolubilità della loro unione! Sissignore, come granelli di sabbia le vite si mescolano e formano, in un barattolo, una nuova entità, frutto della fusione della precedente vita da single. Quasi un rito celtico, insomma. Da sciamano, ma ausiliario del dogma indissolubile del sacramento matrimoniale. La summa di un relativismo etico imperante, che sconfina con un nuovo paganesimo.
*ex parlamentare
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