Uno spettro si aggira per l’Europa: quello del post comunismo. Assume le forme di Vladimir Vladimirovič Putin, l’uomo che ha ereditato la fetta più grande dallo sfacelo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’immensa distesa geografica che, con la caduta del Muro di Berlino e la morte dei soviet, ha ripreso l’antico nome di Russia. Pur depauperata dei confini di alcune vecchi Stati inglobati nella disciolta Urss, la moderna nazione mantiene territori, popolazioni e ricchezze naturali inestimabili che ne fanno, a tutt’oggi, una delle poche potenze mondiali realmente degne di questo nome. Passata dalla tirannia comunista a un regime di libero mercato la Russia non può, per questo, certo definirsi un paese liberale, una società veramente aperta con diritti di cittadinanza pienamente goduti dalla sua popolazione. Dopo i fermenti innovativi realizzati da Michail Gorbachov e la sua perestrojka (riorganizzazione e ricambio), in campo politico, la Russia ha virato verso un capitalismo anomalo fatto di oligarchi che, grazie alla svendita degli immensi beni detenuti dallo Stato, hanno potuto accumulare potere e danaro in quantitativi enormi. Un processo, quello delle privatizzazioni monopolistiche, comunque etero diretto e subordinato alla benevolenza concessoria di coloro i quali detengono il potere. Con questi agganci e tramite tali operazioni, Putin ha potuto governare il Paese anche tramite suffragio elettorale, ancorché questi sia stato fortemente condizionato dalla disparità dei mezzi finanziari e dall’appoggio dell’apparato burocratico statale comunque rimasto in sella nei tempi nuovi. Anche gli antagonisti politici sono stati via via arrestati oppure defraudati dei loro beni, oligarchi compresi, in quanto non allineati alla politica del “nuovo zar”. Uomo scaltro e di multiformi capacità, cresciuto nelle fila del famigerato Kgb (la polizia politica sovietica), Putin ha creato le condizioni perché le libertà fossero solo apparenti, limitate al godimento dei beni e della libera circolazione di ricchezza. Col passar degli anni di potere assoluto, l’uomo del Cremlino non poteva non subire il fascino del delirio di onnipotenza ed il richiamo della nostalgia per la grande Russia di un tempo. Così, riorganizzato l’esercito, ammodernati gli armamenti grazie alle ingenti risorse che il paese vende all’estero, a cominciare dal gas e dal petrolio, Putin ha cominciato a costruire una politica di espansione territoriale, con mano di ferro in guanto di velluto. Si è annesso l’Ossezia, la Crimea e la Cecenia sfruttando le proteste della popolazione di lingua russa, lo stesso pretesto usato nel 1939 da Hitler per annettersi Danzica, la regione della Polonia a maggioranza di popolazione di lingua tedesca. In questo quadro geo politico si innesta la crisi in Ucraina che, già vistasi privata della penisola di Crimea, si vede contendere ora altri territori da un movimento separatista filo russo alimentato e finanziato da Mosca. Lo zar ammassa truppe ai confini e minaccia di invadere la repubblica di Kiev che ha avuto l’ardire di aderire al patto militare occidentale della Nato, il che comporterebbe l’allocazione di uomini e mezzi dell’alleanza atlantica fin nel cuore del territorio della Russia occidentale. Si ripete a parti invertite la storia che caratterizzò la crisi tra Urss ed Usa allorquando, nel mese di ottobre del 1962, i sovietici tentarono di impiantare a Cuba, praticamente sull’uscio di casa degli Stati Uniti, alcune basi missilistiche. Furono quelli giorni di ansia e di paura per il deteriorarsi dei rapporti tra J.F. Kennedy, allora presidente americano, ed il suo omologo russo Niki- ta Chruščёv, capo del politburo sovietico. A sedare i venti di guerra tra due grandi super potenze militari armate di armi nucleari, furono in quegli anni le diplomazie ed in particolare modo l’intervento di un grande Papa come Giovanni XXIII che lanciò un appello via radio indirizzato ai contendenti. La diplomazia vaticana ed il fine diplomatico che poteva dirsi Roncalli riuscirono nell’intento di far recedere i sovietici dal proseguire nel loro intendimento prima che le navi russe, cariche di missili, giungessero nel mare carai- bico e si scontrassero col blocco navale americano. Con l’enciclica “Pacem in Terris” il Pontefice spiegò al mondo che la pace non era soltanto assenza di una guerra, ma un insieme di relazioni benevole tra gli individui e gli Stati sovrani. Per tale autorevole opera Giovanni XXIII fu insignito del premio internazionale Balzan, antesignano del Nobel per la Pace. Oggi purtroppo il soglio di Pietro non è occupato da un Papa che abbia quella dimensione culturale e quel rispetto assoluto nel mondo. Joe Biden, tra l’altro, non vale Kennedy e Putin non è affatto Chruščёv. Abbiamo però le stesse motivazioni di allora affinché la guerra venga scongiurata in un mondo già troppo martoriato. Non ci resta che sperare nella emulazione dei giganti di un tempo.