Mario Mori, la storia del generale condannato nel processo Stato-mafia

La Corte d'assise di Palermo ha inflitto 12 anni all’ex generale dei carabinieri L’inchiesta partita nel 1989 dalla frattura tra procura di Palermo e Ros dei carabinieri.

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse

ROMA (Alfredo Stella)“Continuerò a combattere sicuro di essere nel giusto, di aver rispettato la leggi e, soprattutto, la mia etica professionale”. Questo il primo commento dell’ex generale dei carabinieri Mario Mori, alla sentenza della Corte d’assise di Palermo che lo ha condannato a 12 anni nel processo sulla trattativa stato-mafia. “Sono sereno – ha aggiunto – e non ho nessuna paura”. E ha continuato: “Non accetto di essere considerato un traditore dello Stato, un fellone come si diceva una volta e continuerò a lottare fino in fondo certo che alla fine vincerò. Sono partito dalla parte della giustizia e mi trovo dall’altra parte: questo è doloroso per un ufficiale dei carabinieri. Da 15 anni faccio l’imputato e sono incazzato, ma sono un agonista, ho bisogno di un nemico, le battaglie mi danno forza”.

Il personaggio

Per chi lo difende, è il generale che ha servito lo Stato negli anni più bui della Repubblica. Nato nel 1939 in terra di frontiera, a Postumia Grotte, una cittadina «ex Trieste» passata alla Jugoslavia nel 1947, come ogni figlio di un ufficiale dei carabinieri segue gli spostamenti del padre: medie a Trento, liceo a Roma, poi l’accademia militare di Modena e la Scuola di applicazione di Torino. Entra nell’arma nel 1966 e si guadagna presto i gradi di capitano: così arriva al Sid, l’allora servizio segreto militare comandato da Vito Miceli (il generale arrestato nel 1974 per cospirazione contro lo Stato nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, poi assolto nel 1978) e Gianadelio Maletti.

Con Carlo Alberto Dalla Chiesa

Dopo qualche anno passato a Napoli, passa nella Capitale a capo della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo, il 16 marzo del 1978, nello stesso giorno del sequestro di Aldo Moro. La sua sezione opera sotto il Nucleo speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era stato sciolto nel 1976 ma ricostituito in tutta fretta dall’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti. Nei 55 giorni di prigionia è a capo delle indagini ed è in piedi vicino al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, davanti alla Renault rossa, il 9 maggio.

E’ dopo l’uccisione di Moro, sotto la direzione di Dalla Chiesa, che il gruppo guidato da Mori mette a segno duri colpi alle Br: prima l’individuazione del covo di via Montenevoso, a Milano, dove furono rinvenute le lettere di Moro e il cosiddetto memoriale, poi, negli anni successivi, gli arresti eccellenti della colonna romana delle Br, come quello di Barbara Balzerani nel 1985.

Da Dalla Chiesa, Mori assimila un metodo che utilizzerà poi anche nelle indagini sulla mafia in Sicilia e che pone a fondamento dei principi guida del Ros: conoscere e possibilmente anche usare il vocabolario e le tecniche degli avversari per essere in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse. .Di Mori, il generale Dalla Chiesa nella valutazione finale scrive: “Ufficiale molto serio, molto riflessivo, molto responsabile ha dato nuova conferma di un patrimonio brillante di qualità intellettuali, morali, militari e di carattere. Nel particolare e delicato incarico della lotta frontale alla eversione, ha attinto a piene mani alla sua esperienza ed alla sua qualificata preparazione tecnico- professionale per condurre un’azione penetrante, responsabile, generosa, per offrire una collaborazione permeata di entusiasmo e di spirito di sacrificio e per garantire, con tatto ed efficacia, relazioni proficue con organi paralleli e con la stessa Autorità Giudiziaria. Gli esprimo la mia gratitudine. Rendimento pieno e sicuro”.

L’esperienza siciliana

Mori viene mandato in Sicilia nel settembre 1986, durante il primo maxiprocesso alla mafia. L’allora comandante dell’Arma decide di chiamare sull’isola ufficiali di provata esperienza ma senza precedenti di servizio sul territorio, che potessero agire senza condizionamenti ambientali e personali.

L’esperienza romana e Giovanni Falcone

Forte di quell’esperienza professionale, nel 1990 Mori torna a Roma al comando generale con il mandato di organizzare un nuovo reparto dell’Arma: il Raggruppamento operativo speciale, il Ros. Una struttura che ancora oggi si occupa di contrasto alla mafia e al terrorismo in tutta Italia, derogando alla rigida logica territoriale dei carabinieri.

Principale sostenitore del progetto: il magistrato Giovanni Falcone, che Mori aveva conosciuto nei suoi anni in Sicilia. La sede del nuovo reparto diventa la caserma di via Talamo, vicino a Villa Ada a Roma, che era stata occupata a suo tempo dell’Antiterrorismo, e a capo viene nominato il generale Antonio Subranni.

Ancora in Sicilia

Con la carica di comandante di reparto, Mori torna in Sicilia e riprende l’inchiesta “mafia e appalti”, avviata nel suo primo soggiorno sull’isola e che teorizzava il rapporto tra la mafia e il settore economico imprenditoriale. A sostenerlo c’è di nuovo Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, Paolo Borsellino. Entrambi la considerano un salto di qualità nella lotta a Cosa nostra, e Borsellino la ritiene causa scatenante della strage di Capaci.

Proprio durante la conduzione di questa inchiesta, tuttavia, sorgono i primi dissapori tra il Ros di Mori e la Procura di Palermo, in particolare a causa delle indagini sulle presunte connivenze tra i boss e una parte della politica del capoluogo. A conferma dei timori di Mori, “Mafia e appalti” si chiude con gli arresti di una serie di imprenditori molto vicini ai vertici di Cosa nostra ma la Procura chiede l’archiviazione delle posizioni dei politici indagati, proprio il giorno dopo la strage di via D’Amelio.

L’arresto di Riina

Il boss dei boss di Cosa nostra, Totò Riina, viene arrestato il 15 gennaio 1993 e a Palermo è una giornata d’inverno isolano, 11 gradi e nemmeno una nuvola in cielo. L’indagine che porta alla cattura del capo della più grande organizzazione criminale d’Europa è iniziata nell’infuocata estate del 1992, cioè nella stagione in cui l’aggressività contro lo Stato della strategia mafiosa voluta da Riina ha visto la sua escalation con le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

In quell’anno, Mario Mori viene nominato vicecomandante del Ros, con responsabilità dell’at- tività operativa del reparto. Forma così un’unità speciale e a capo nomina Sergio De Caprio, il capitano Ultimo: la peculiarità del gruppo è di operare in modo svincolato dall’organizzazione dei carabinieri per evitare qualsiasi fuga di notizie e limitare qualsiasi contatto con il mondo esterno.

Le informazioni iniziano ad arrivare: prima il fatto che Riina si nasconde da qualche parte nel quartiere della Noce, capeggiata dalla famiglia mafiosa dei Ganci. Poi che uno dei figli del boss, Domenico, si reca spesso in un complesso residenziale in via Bernini. La svolta, però, arriva quando viene arrestato a Novara Baldassare Di Maggio, boss che inizia a collaborare col giudice Giancarlo Caselli e racconta del cosiddetto ‘fondo Gelsomino’ dove avvengono le riunioni di Cosa nostra e di due costruttori palermitani favoreggiatori del latitante Riina ( già noti ai carabinieri perché indagati durante l’inchiesta mafia e appalti). E’ questa l’informazione chiave: nel complesso di via Bernini risulta un’utenza telefonica intestata a loro.

Il 13 gennaio scatta l’operazione: su un furgone ‘balena’, con impianto per le riprese audiovisive, sono appostati gli uomini di ‘Ultimo’ e il boss Di Maggio, che riconosce in un’auto che entra nel condominio la moglie di Riina, Ninetta Bagarella. Il secondo giorno di appostamento, a bordo di una Citroen che esce dal complesso residenziale, Di Maggio riconosce un uomo d’onore alla guida e, accanto a lui, Totò Riina in persona.

La squadra di ‘Ultimo’, coordinata da Mori, fa scattare la trappola pochi chilometri dopo in un motel Agip e cattura entrambi i boss. L’uomo più ricercato d’Italia, l’ultrapotente Riina, è in trappola.

Eppure, il generale lo considera il suo più grande rimpianto professionale: “Non ho avuto la forza di aspettare, di andare avanti nel pedinamento, se avessi atteso ancora qualche chilometro prima di dare l’ordine li avremmo presi tutti: seppi poi che Riina si stava dirigendo a una riunione della ‘commissione’ provinciale di Cosa nostra. La correttezza era quella di andare avanti come insegnava la dottrina Dalla Chiesa, ma sentivo idealmente sopra di me il peso del comando generale dell’Arma del ministero dell’Interno e mi mancò il coraggio di attendere” .

I processi

Dalla sua operazione più brillante, prende corpo il primo processo a suo carico. Mori viene rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa Nostra, per aver ritardato la perquisizione nell’ultimo covo di Riina.

Il giorno dell’arresto, il magistrato torinese Caselli ha assunto le funzioni di procuratore della Repubblica di Palermo e proprio lui viene convinto da Mori e De Caprio ad aspettare ad entrare nella casa di via Bernini.

“Una richiesta assolutamente coerente con la dottrina investigativa e la tecnica operativa dell’antiterrorismo dei Carabinieri, secondo le quali da ogni azione si dovevano ricavare i presupposti per poter proseguire l’indagine con efficacia ha scritto Mori”. In altre parole, se la perquisizione fosse avvenuta immediatamente, tutte le persone che avevano frequentato il covo si sarebbero sentite bruciate.

Mori e la frattura con Palermo

Così si consuma l’ennesima rottura con la procura di Palermo: il Ros di Mori vuole evitare l’intervento e sfruttare la superiorità informativa; i magistrati palermitani subentrati nell’operazione, invece, richiedono un’osservazione costante, incompatibile secondo i carabinieri con il luogo senza venire notati. Così De Caprio sospende l’osservazione con le modalità richieste dai Pm, dopo alcuni giorni, e procede alla perquisizione della casa vuota. L’incomprensione porta al procedimento penale: “Il danno e la beffa, perché la responsabilità del ritardo nella perquisizione ricadde esclusivamente su me e De Caprio“, ha detto Mori”

I due carabinieri, però, vengono assolti il 20 febbraio 2006 e i pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino non presentano ricorso in appello. La sentenza conferma che si è trattata di una scelta investigativa legittima e che “l’accettazione del rischio fu condivisa da tutti”.

Il caso Provenzano

Dopo l’arresto di Riina, le indagini si spostano sul suo braccio destro Bernardo Provenzano, latitante dal 1964. Un primo tentativo di indagine viene portato avanti grazie alla collaborazione di don Tano Badalamenti, boss di Cinisi detenuto in America, nel carcere federale di Memphis, ed esponente della cosiddetta mafia tradizionale, uscita perdente dalla guerra contro i corleonesi di Riina e Provenzano.

Il boss si fida del maresciallo Nino Lombardo e sembra disposto a qualche forma di collaborazione di giustizia, ma il suicidio di Lombardo in seguito a notizie di una sua presunta collusione con la mafia (pronunciate durante la trasmissione di Michele Santoro da parte del sindaco di Palermo Leoluca Orlando) blocca l’operazione.

L’iniziativa del Ros è già però oggetto di maldicenze: in particolare si fa circolare la voce che i carabinieri volessero favorire il ritorno della vecchia mafia.

Chiuso quel tentativo, nel 1996 viene chiesto un impegno operativo del Ros alla Dda di Reggio Calabria e Mori cessa le sue attività in Sicilia, ma il nome di Provenzano ( catturato nel 2006) torna, sempre attraverso un’iniziativa della Procura di Palermo.

Nel 2008 i sostituti procuratori Antonio Ingroia e Nino Di Matteo sostengono l’accusa contro Mori e il colonnello Mauro Obinu per aver assecondato la latitanza di Provenzano, col movente di garantire un patto siglato tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. La tesi del pm si incrocia con l’inchiesta sulla presunta trattativa Stato- mafia, che negli stessi giorni inizia il suo iter processuale.

La linea accusatoria è che Mori e Obinu, obbedendo a un indirizzo di politica criminale, hanno ritenuto di trovare una sciagurata soluzione nell’assecondare le fazioni più moderate di Provenzano e di Cosa nostra” e ancora che si è trattato di “una scelta sciagurata di politica criminale, e cioè la prosecuzione della latitanza di Provenzano. Allo stesso modo il governo e il Dap assecondarono il dialogo agendo in questa ottica di trattativa”.

Secondo i pm, infatti, proprio il mancato arresto di Provenzano fa parte delle clausole del patto tra mafia e istituzioni. All’origine delle accuse ci sono le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che ha sostenuto di avere ricevuto la soffiata da un pentito di un summit nelle campagne di Mezzojuso a cui avrebbe partecipato anche il nuovo capo di Cosa nostra e di essersi visto negare la possibilità di fare un blitz e procedere all’arresto.

Per i giudici c’è stata una omissione e una sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo, ma nulla più. Infine, nel 2016 la Cassazione ritiene inammissibile il ricorso della procura di Palermo. “Avendo la coscienza a posto, sono sempre stato molto tranquillo, il commento generale al termine dell’ultimo grado di giudizio”.

La direzione del Sisde

Il 1 ottobre del 2001, a meno di un mese dall’attacco alle Torri Gemelle, Mori viene trasferito da Milano a Roma, per prendere servizio come direttore del Sisde, il servizio segreto civile. E’ il suo ultimo incarico operativo prima della pensione, nel 2006. Mori affronta il nuovo compito con le stesse tecniche imparate nel contrasto con il terrorismo politico e la mafia e, durante gli anni a capo del servizio, mette a segno arresti eccellenti sul fronte internazionale: il primo, quello del boss mafioso Giovanni Bonomo, tra i trenta ricercati più pericolosi e latitante dal 1996, rifugiato all’estero in Costa d’Avorio e catturato in Senegal; poi, la cattura degli assassini del colonnello Antonio Varisco, ucciso a Roma dalle Br nel 1979. “Avevo un debito da saldare nei confronti di un caro amico”

La trattativa stato-mafia

La storia del generale Mori, forse uno degli investigatori più noti nella storia dell’Arma, avrebbe potuto concludersi con la pensione. Invece, dopo i due processi e le due assoluzioni, la Procura di Palermo porta avanti contro di lui un terzo filone di indagine.

La tesi richiama in modo diretto quella sostenuta nel processo per il mancato l’arresto di Provenzano e anche i Pm sono gli stessi: Antonio Di Matteo, Antonio Ingroia, con Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Del resto, il procuratore capo Scarpinato, che Mori ha conosciuto negli anni Novanta e con il quale da capo del Ros non ha mai instaurato alcun rapporto di fiducia, ha sostenuto più volte che: “C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista”. Nel caso del processo sulla Trattativa Stato-Mafia, Mori è considerato l’anello di congiunzione tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, in una trattativa che punta a fermare lo stragismo mafioso “concedendo” una tregua. Tra i punti di questa tregua, proprio la latitanza di Provenzano, capo dei capi succeduto a Riina. Caposaldo dell’ipotesi di una trattativa, secondo la Procura palermitana, è l’incontro tra Mori e l’ex sindaco di Palermo, il democristiano in odore di mafia, Vito Ciancimino, nel 1992. Per la procura, è l’inizio del dialogo con Cosa nostra. Per Mori, Ciancimino è una tra le fonti da sondare per arrestare Riina e del cui contatto non venne allertata la Procura di Palermo, con la quale i rapporti di fiducia si erano molto compromessi dopo l’archiviazione di “mafia e appalti”.

Su questo elemento si fonda l’inchiesta per minaccia a corpo politico dello Stato e la Corte accoglie la tesi della Procura: il capo di imputazione per Mori non è identico a quello su Provenzano per cui è stato assolto dalla Cassazione, perché il fatto storico del mancato arresto nel 1995 viene considerato dall’accusa come conseguenza del dialogo avviato nel 1992 e non è l’oggetto principale.

Dopo 5 anni di udienze, nel 2018 il Tribunale di Palermo condanna in primo grado Mario Mori a 12 anni di carcere, quale anello di congiunzione della trattativa, insieme a chi all’epoca dei fatti collaborava con lui nel Ros. Assolve invece per prescrizione il boss Leoluca Bagarella e perché il fatto non sussiste il politico Dc Nicola Mancino.

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