Pd diviso sul congresso. Farlo dopo le Europee sarebbe il suicidio politico definitivo

I renziani spingono per rimandarlo, Orlando e Zingaretti chiedono tempi brevi

Foto Ufficio Stampa Partito Democratico/LaPresse 12-03-2018 Roma Politica Direzione nazionale del Partito Democratico Nella foto: Maurizio Martina DISTRIBUTION FREE OF CHARGE - NOT FOR SALE

ROMA – Congresso si, congresso no. La vita o la morte del Partito democratico a rischio estinzione passa tutta da lì. Se c’era bisogno dell’ennesima prova sullo stato comatoso del Pd, bene: è arrivata. La sconfitta alle ultime elezioni amministrative ha sancito definitivamente il crollo verticale dei consensi politici dei Dem. Le strade, ad oggi, sembrano due. Se si vuole evitare l’irrilevanza completa in quello che fu un progetto ambizioso forse mai compiuto, c’è bisogno di un radicale cambio di passo nella linea politica e di una totale sostituzione del gruppo dirigente che l’ha guidato fino ad ora. In poche parole, o si mette la parola fine al renzismo e i suoi principali attori o si muore. Per farlo serve un congresso, sofferto, ampio e ‘profondo’. Se si è in grado di metterlo in piedi. Ma l’idea che sta prendendo piede tra i renziani e lo stesso Renzi, silente ma presentissimo, è di posticiparlo al post elezioni europee. Sarebbe il compimento di un percorso, ovvero l’eutanasia finale di un partito.

L’ultimo disastro renziano: congresso dopo le Europee

Non perdere, anche se si perde. Il riassunto dell’attuale linea renziana e turborenziana è questo. Rimandare un congresso che vedrebbe l’ex premier e i suoi fedeli sul banco degli imputati come i responsabili del disastro massimo. E’ una linea che sta passando attraverso tutto il mondo legato a Matteo Renzi. Maria Elena Boschi, Ettore Rosato, Ernesto Carbone, Luca Lotti, ma anche gli stessi Graziano Delrio e Maurizio Martina vorrebbero scongiurare un congresso entro dicembre, che li vedrebbe perdenti. Idea che, banalmente, nasconde un semplice e piccolo ostacolo: il consenso. Se il Pd non cambia radicalmente linea e interpreti, è destinato a continuare a perdere. E il 18% delle politice del 4 marzo rischia di essere addirittura un lontano miraggio.

Zingaretti in campo e la carta Gentiloni

Intanto, qualcosa si muove. E non è solo una reunion degli sconfitti antirenziani. Prende sempre più piede l’idea di una candidatura del governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Il suo nome potrebbe significare tre cose: spostamento a sinistra della linea politica per un partito che la politica sembra averla messa in soffitta. Capacità di aggregazione, interna ed esterna. Per capirci: da Orlando a Bersani. Attorno al suo nome gli altri cespugli a sinistra del Pd potrebbero convergere facilmente. Così come gran parte del partito, anche i renziani senza turbo, come Delrio, Franceschini e così via. Sopportabili dall’opinione pubblica a differenza dei più stretti collaboratori di Renzi. Zingaretti garantirebbe, teoricamente, anche un cambio di classe dirigente senza però voler rottamare nessuno. Cosa che, di questi tempi, è gradita un po’ a tutti. E poi c’è Paolo Gentiloni. La figura dell’ex premier potrebbe essere spesa in eventuali elezioni, per un dualismo non concorrenziale tra lui e Zingaretti in grado di coprire una fetta più ampia di elettorato. Ma siamo alla politologia. La politica, si sa, è ben altra cosa: tutto questo è possibile, forse, solo con un congresso entro dicembre.

Con Renzi, tutto è perduto

La rinascita della sinistra e del Pd, se è ancora possibile, passa per il superamento della stagione renziana. Chiunque andrà a guidare il Pd, tra un mese o tra un anno, se vuole avere qualche chance di buona riuscita, deve archiviare la stagione appena passata. E’ una legge antica della politica. E bisogna farlo anche con un atto forte, non un accordicchio di non belligeranza con Matteo Renzi. La votorepellenza del personaggio condita con lo snaturamento totale di linea politica del Pd sono un binomio da spezzare il prima possibile. La proposta di Calenda, ad esempio, non soddisfa queste necessità. Non che dopo sia facile, anzi. La salute del Partito democratico è critica a prescindere dal protagonismo o meno dell’ex segretario. Così come immaginare una semplice restaurazione sarebbe una cura peggiore della malattia.

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