“Dove eravamo rimasti”. Si potrebbe esordire così, citando il grande Enzo Tortora, nel provare a ragionare delle prossime scadenze elettorali che attendono la Campania e, in particolare, di quella finalizzata al rinnovo del Consiglio regionale e del governo di Palazzo Santa Lucia.
Dunque, dove eravamo rimasti? Eravamo rimasti a Stefano Caldoro e alla sua giunta, di cui sono onorato di aver fatto parte; ad un centrodestra plurale e laborioso, che tanti risultati ha prodotto in termini di risanamento e di comportamenti virtuosi, facendo uscire la nostra regione da quelle considerate nel Paese come “canaglia”, perché ancorate a vecchie logiche assistenzialistiche e pronte a questuare presso i diversi Governi col cappello in mano soluzioni a costo zero; ad una visione della macchina amministrativa improntata alla “programmazione” e lontana, per questo, mille miglia dalla “gestione”, che invece spetta ai Comuni e agli altri enti territoriali. Cosa ci siamo persi, invece, in questi oramai quattro anni che ci separano da quell’epoca e da quell’esperienza. La capacità di discernere tra gli annunci e le azioni; l’opportunità di proseguire il lavoro svolto, a fatica ma con profitto, in materie delicate come quelle dei fondi europei, dove si erano recuperati standard di spesa e di efficienza riconosciuti dai diversi commissari; la possibilità di seguire segmenti produttivi del contesto campano con deleghe e delegati certi, penso a due settori di punta come l’agricoltura e i trasporti, ancora oggi senza assessori. Eppure la giunta presieduta da Vincenzo De Luca non era e non è stata costretta a marciare con il freno a mano tirato, come invece era accaduto a quella di Stefano Caldoro. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla tagliola del patto di stabilità, alla logica dei tetti di spesa che impediva di fatto di spendere fondi anche quando in cassa c’erano ed erano reclamati da imprese ed enti per servizi ed investimenti, all’austerity e alla spending review di Monti, alla congiuntura internazionale particolarmente sfavorevole. Tutte condizioni che hanno impedito che il progetto politico del centrodestra potesse crescere così com’era iniziato, in modo virtuoso e con un faro sempre puntato sulla trasparenza e sulle esigenze delle comunità campane. Il voto del 2015 è stato, poi, un voto bugiardo, che ha concesso un premio di maggioranza oltre modo ampio, ancorché legittimo perché stabilito dalla legge, ma a fronte di un divario tra i due presidenti (De Luca e Caldoro) minimo e frutto più di defezioni personali che non di scelte politiche ponderate. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, la macchina amministrativa è ferma, l’immagine della Campania in crisi. Siamo ben lontani, infatti, dai grandi eventi del governo di centrodestra, dalla promozione dei territori in contesti internazionali, dal rilancio in seno agli stakeholder del “brand Campania”, un marchio per riposizionare la regione, in virtù delle tante eccellenze, all’apice del mercato italiano ed estero. L’aver inoltre temporeggiato su vicende di gestione, da qualcuno considerate come di potere, ha fatto anche guadagnare all’allora maggioranza di centrodestra epiteti e definizioni poco gentili, irriverenti, agli antipodi con i moderni standard di “machismo politico”, quasi a voler significare che governare i processi programmando fosse una diminutio rispetto al condurre spartizioni e fare nomine, emblema invece di forza e potere. Il tempo ha dimostrato che non è così. Oggi il centrodestra può dunque raccogliere i frutti della stagione fallimentare che sta per volgere al termine. E deve farlo consapevole che il Movimento Cinque Stelle, uno “Spritz” tutto italiano, nato dall’antipolitica e cresciuto con l’avversione antirenziana e la promessa (chissà se mai mantenuta) del reddito di cittadinanza, non potrà raccogliere più i cocci di una disgregazione sociale che, con qualche capacità, ha canalizzato con il voto politico di marzo scorso. L’esperienza di governo insieme a Matteo Salvini sta facendo emergere tutte le debolezze, le contraddizioni, i limiti di un contenitore colmo di risentimento ma fine a se stesso, senza alcuno sbocco che non si la protesta. A chi spetta allora la responsabilità della proposta politica in Campania? Non certo al centrosinistra post-renziano, dilaniato com’è, né tanto meno ad un nuovo, ed ennesimo, soggetto di sinistra sinistra come quello immaginato dal Sindaco di Napoli. Toccherà allora, ancora una volta, al centrodestra ripercorrere il sentiero tortuoso ed irto della responsabilità. Un centrodestra che dovrà subito confrontarsi con un banco di prova al proprio interno, allontanando da sé la tentazione di far scivolare il dibattito sui nomi piuttosto che sul perimetro, che è inizio e fine di ogni possibile prospettiva di vittoria. Il campo del centrodestra, fatto di partiti politici ma anche di movimenti e forze sociali, di liberi cittadini e di imprese, di espressioni culturali e di giovani, è abbastanza ampio da contenere ogni vettore e tendenza di cambiamento rispetto alla deludente stagione post-renziana e, possiamo dirlo, post-grillina. La parola chiave dovrà essere rinnovamento, ma un rinnovamento nella continuità. Non si dovrà rinunciare a ciò che di buono c’è oggi in campo, senza tuttavia trincerarsi dietro rendite di posizione e dogmi. Soltanto così si tornerà a vincere e, cosa ben più importante, si consentirà alla Campania di riprendere la strada giusta per ripartire. Non con proclami ed annunci ma, come si è già fatto tra il 2010 e il 2015, con investimenti a medio e lungo termine e azioni di sistema.