I segreti di Cassese. Le rivelazioni ai pm della Dda dell’ex assessore e avvocato di Santa Maria Capua Vetere

“Diana favorì la latitanza di Iovine e fece curare il boss Zagaria a Lione”. I verbali non compaiono tra le carte dell’inchiesta sui ‘repezzati’. Gli atti raccolti dal Noe nel 2016

CASAPESENNA – Non solo ex affiliati del clan. A parlare di Armando Diana alla Dda è stato anche un avvocato ed ex politico sammaritano: si chiama Giuseppe Cassese. Da qualche anno è scomparso dai radar, ma nel 2016 si precipitò negli uffici della procura di Napoli ‘per amore’ e per paura. Una relazione sentimentale, stando al suo racconto, lo stava mettendo in pericolo, così decise di fiondarsi dai pm e raccontare tutto quello che sapeva. A raccogliere la testimonianza del legale furono il magistrato Catello Maresca e i carabinieri del Noe.

Michele Zagaria

Quelle parole, però, non sono confluite nell’inchiesta che martedì scorso ha ristretto ai domiciliari i fratelli Nicola ed Antonio Diana, ed il loro zio Armando, tutti indagati per concorso esterno alla cosca Zagaria. Cassese al sostituto procuratore citò una società: la Findi. “Era una finanziaria di copertura e appoggio al clan”. L’azienda sarebbe servita “da vera e propria ‘lavatrice’ dei proventi illegali dell’organizzazione”. “Queste notizie – riferì l’avvocato – mi sono pervenute anche da tale Paolo Salzillo (non indagato ed innocente fino a prova contraria), dipendente storico di Armando Diana”. Il 49enne sammaritano raccontò anche di un altro business di ‘o repezzato: “La ristorazione dell’autogrill situato a San Nicola la Strada sulla A1, di fronte alla Pavesi”. L’avvocato elencò pure presunte proprietà in Umbria riconducibili a Diana. “Aveva ottimi rapporti con le forze dell’ordine, tanto che era a conoscenza di eventuali intercettazioni in corso”. L’imprenditore, secondo Cassese, avrebbe favorito la latitanza di Antonio Iovine. “Lo ha ospitato in una piccola costruzione ad un piano ubicata alle spalle del capannone di Gricignano in via della Stazione, ove attualmente c’è un deposito in affitto gestito da tale Massaro”. Non solo Iovine. Diana, raccontò Cassese, “si è interessato affinché Michele Zagaria effettuasse controlli medici in un polo medico universitario di Lione, ove lavorava una tale Maria”.

Antonio Iovine

‘O repezzato sarebbe stato addentro anche alle dinamiche politiche casertane. “Ebbi da lui la direttiva di parlare con Enzo Iodice (ex sindaco di Santa Maria Capua Vetere, non indagato ed innocente fino a prova contraria), affinché Pierfrancesco Lugnano (non indagato ed innocente fino a prova contraria) cambiasse le proprie condotte di gestione del consorzio. Armando Diana – chiarì Cassese – non mi disse nello specifico quali fossero dette condotte, ma per il tramite di Iodice mi fece intimare a Lugnano di desistere dai comportamenti che avevano portato alla ritorsione con l’incendio di alcuni camion, episodio riconducibile ai comportamenti di corretta gestione del Lugnano. Diana mi fece intendere che ‘l’imbasciata’ perveniva direttamente da Antonio Iovine”.

La strategia per apparire ‘puliti’. Le dichiarazioni del pentito Pellegrino: “Assumevano vittime o parenti di vittime di mafia”

Una mossa per sembrare impeccabili, immacolati. Una strategia per prendere le distanze dal clan. Il repezzato, ha raccontato Attilio Pellegrino, “mandò a dire a noi del clan Zagaria che aveva bisogno di presentarsi alle forze dell’ordine come un imprenditore modello ed espressione della legalità. E quindi doveva denunciare qualcuno”. Il nome, l’ex cassiere del clan, non lo ricorda: “Conosco una sola persona con questo soprannome”, spiegò Pellegrino 3 anni fa alla Dda, “si tratta del cognato del nostro affiliato Michele Barone. “Aveva una fabbrica a Gricignano: si occupava del riciclaggio e della trasformazione di plastica”.

Alla Dda quelle indicazioni sono comunque bastate a sostenere che il pentito si riferiva ad uno dei Diana arrestati martedì dalla Mobile di Caserta. A portargli la richiesta di poter “sacrificare qualcuno” per stare tranquilli, per fugare ogni sospetto, sarebbe stato Luigi Della Corte (non indagato ed innocente fino a prova contraria), uno dei “ragionieri del repezzato”. L’episodio, ha aggiunto il pentito, si verificò nel 2010. “Dopo i saluti legati alla mia recente scarcerazione, mi disse che il suo datore di lavoro aveva bisogno di far arrestare per estorsione qualcuno”. Il Diana, stando a quanto riferito da Pellegrino, temeva che se non lo avesse fatto “diventava sospetto che un’impresa così grande non subisse estorsioni”.

L’imprenditore originario di Casapesenna non veniva taglieggiato, ha spiegato il pentito, “grazie alla protezione di Michele Zagaria, ma occorreva mostrare una realtà diversa, facendo arrestare qualcuno”. Della presunta strategia mostratagli da Della Corte, il brianese “utilizzando il sistema dei citofoni” informò il boss. “Ricordo che citofonai Michele Zagaria da casa di Giovanni Garofalo. Il capoclan  gli disse “che era un’idea assolutamente improponibile, in quanto non potevamo far arrestare nessuno e che occorreva studiare qualche altra soluzione”. Attilio Pellegrino comunicò il no di Capastorta al ragioniere dei Diana. “Per sviare ogni sospetto sulla figura dell’imprenditore bisognava studiare qualcosa di diverso”. E il piano b, poco dopo, sarebbe saltato fuori. “Della Corte mi disse che avevano effettivamente posto in essere un’idea alternativa: il suo datore di lavoro stava infatti assumendo o aveva forse già assunto delle persone vittime o parenti di vittime della camorra, così da presentarsi come un paladino della legalità”.

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