Daniele Albanese, ballerino e coreografo, classe ‘74 nasce a Parma. Acquisisce una formazione fisica da vero ginnasta, la disciplina sportiva che lo ha poi avviato, quasi per caso, all’arte del ballo. E così, dal 1990 al 1993, studia danza classica e frequenta workshops di danza contemporanea e teatro.
Nel 1993 é studente full-time presso l’Eddc-Arnhem in Olanda dove per lui diventano fondamentali gli studi con il filosofo portoghese Josè Gil sul rapporto mente-corpo e il processo creativo. Nel 1997, sempre in Olanda, è scelto dalla Hogheschool Voor de Kunsten – Arnehm per partecipare al Roos Gesink Prijs come rappresentante della Facoltà Teatre nel 2002 fonda la Compagnia Stalker- Daniele Albanese.
Nel 2004 crea con la Neurofisiologa Elena Borra, ricercatrice nel gruppo di Parma che ha scoperto il neurone specchio diretto dal Dott. Giacomo Rizzolatti, il progetto àrebours uno studio sul rapporto movimento, sensi, spazio e memoria.
“Lì ho lavorato con una mia collega – spiega a Cronache – ora ricercatrice. Un discorso molto interessante per i danzatori. In base alla teoria dei neuroni specchio quando ci si muove, si fa una qualsiasi azione, inconsciamente in chi guarda si attiva nel cervello un’azione identica e precisa. Dunque per la danza una cosa di primaria importanza”.
Si è avvicinato al mondo della danza grazie alla ginnastica?
Non proprio. Diciamo che la ginnastica mi ha dato un background fisico che utilizzo ancora in parte. Quando da piccoli si fa uno sport del genere si viene aiutati anche a livello motorio. Il contatto con il ballo è stato un po’ una casualità fino a quando ho iniziato a studiare danza classica. La mia formazione è iniziata in Olanda, in un centro molto sperimentale, l’Eddc- Armen, dove ho studiato con maestri americani del post-modernismo. Un’esperienza che ha segnato molto il modo di lavorare col corpo inteso in senso anatomico, in modo da capirne i funzionamenti di una macchia così complessa.
La macchina corpo, dunque, che si muove in perfetta sintonia con la macchina mente.
Assolutamente sì. Noi siamo un’unità, per cui necessariamente quando si pensa al corpo si pensa al corpo-mente. Non a caso uno dei testi di riferimento su cui ho studiato in Olanda è intitolato proprio “Il corpo pensante”. In questo modo ha preso forma in me il periodo di ricerca e di danza in cui il corpo-mente viene studiato per il suo totale funzionamento. Non c’è più il corpo spettacolare che può fare ogni cosa, ma tutto può diventare danza, dipende solo dal punto di vista che adottiamo.
Lei nasce come ballerino, ma poi ha indirizzato i suoi studi anche verso la coreografia.
Sono sia coreografo che danzatore. Fin dai miei primi anni di studio in Olanda ho iniziato a creare i miei lavori. Lì vigeva un approccio educativo molto libero in quanto si insegnava a dei futuri artisti. Non c’era quindi una didattica prettamente scolastica, tradizionale, che imponesse delle nozioni standard. Ma si cercava di far trovare ad ognuno la propria linea creativa. Si dava vita così vita ad un percorso che collegava le informazioni che ci venivano dettate e le individualità e originalità.La preparazione tra danza e coreografia è stata coltivata ed è cresciuta di pari passo?Sì, per me sì. Ho scelto di procedere in questo modo perché fin dall’inizio dei miei studi avevo l’urgenza di creare dei lavori che fossero miei. Ero giovanissimo, avevo appena 22 anni.
Oggi che valore dà alla danza come mezzo di comunicazione sia in termini generali che in termini di ricerca?
Forse le due cose coincidono. La bellezza che ha oggi la danza di ricerca, quella che propongo e studio, è che è al di là del contenuto stesso, adottando modi di comunicare tra la mente e il corpo, quindi tra il pensiero, le suggestioni, la luce, la musica e le immagini che arrivano. Solo così mi permette di decifrare in modo particolare le realtà di oggi più chiuse e narrative. E’ ovvio che, ogni spettacolo deve funzionare, deve far riflettere lo spettatore che, assorbito in questa analisi, dà la possibilità di una molteplicità di risposte, senza un significato univoco, ma del tutto personale.
Ci parli ora della sua compagnia: “Stalker”.
Una compagnia che fa ricerca, lavoro di formazione. Crea spettacoli con progetti portandoli poi in tournee. “Stalker” è nata poco dopo che sono tornato dall’Olanda, il cui titolo prende spunto dal film di Andrei Tarkovsky, dove lo stalker è colui che porta le persone in una zona e la zona ha la sua logica particolare. E’ come trasportare le persone in un mondo dove c’è un certo tipo di logica. E’ un po’ che facciamo tutti noi teatranti: con il mio lavoro cerco di portare le persone in un latro luogo.
Che tipo di pubblico segue i suoi spettacoli?
Facciamo una premessa importante tra l’Italia e l’estero. Fuori dal nostro Paese il pubblico è più abituato a vedere ricerca in scena. In Italia è un po’ diverso. Anche in teatro viene chiunque, oltre agli addetti ai lavori, ovviamente. C’è molto pubblico che appare interessato e si fa delle domande. Non a caso dopo lo spettacolo, quando me lo chiedono, si organizzano dibattiti con il pubblico in cui si chiariscono molte cose di quanto visto in scena.
Ci parli di Von, lo spettacolo che il “Teatro pubblico campano” propone questa sera al Teatro Nuovo di Napoli per la rassegna “Quelli che la danza 2019” .
Von è una riflessione sulla danza intesa come continua mutazione e trasformazione in rapporto con le forze che agiscono sui corpi e sullo spazio. Una coreografia di movimento, luce e suono. Forze naturali, forze fisiche e forze politiche che mutano, distorcono, muovono i corpi e il loro incedere nel tempo. E’ un lavoro dove sarò protagonista in prima persona sia come coreografo che come danzatore. Farò due piccoli assoli di cui uno all’inizio, molto breve, e l’altro alla fine molto più denso e intenso. Mentre la parte centrale è interessata per intero da due miei danzatori che sono Marta Ciappina e Giulio Petrucci.
Che significa Von?
Lo spettacolo prende il nome dalla particella grammaticale di origine tedesca e olandese, ‘Von’, che indica un luogo, una provenienza. Si tratta di un lavoro algido, metallico, come una cosa che vogliamo osservare, un qualsiasi oggetto. Nasce dall’idea degli ‘orizzonti degli eventi’ una definizione reale che esiste in astrofisica e serve per identificare una superficie attorno ad un buco nero: tutto ciò che è da una parte riusciamo a vederlo, la restante invece, viene risucchiata dal vuoto. Von indaga proprio questo confine, tutto ciò che vediamo e che non vediamo, ciò che appare e che scompare.